domenica 30 ottobre 2011

Le conseguenze dell'amore.

Le conseguenze dell'amore.
Paolo Sorrentino, 2004.

   Ultimamente mi sono ritrovata a pensare a che fine abbia fatto il cinema italiano, rilegato alla dimensione neorealista ed ancora profondamente ancorato alla commedia. Commedia, oggi, volgare o banale. E seppure ogni tanto salta fuori qualche buon lavoro, apprezzato anche fuori nazione, è uno strascico degli anni dello splendore. Basta pensare all'unico film italiano che abbia vinto un Oscar come miglior film straniero negli ultimi quasi 20 anni (La Vita è Bella) a capire che non c'è stata progressione: non siamo più al passo coi tempi.

   Mi hanno detto che se c'è un nome che può salvere la reputazione del cinema italiano, beh, quel nome è Paolo Sorrentino. Basta vedere i primi minuti di Le Conseguenze dell'Amore per rendersene subito conto: dove altro troviamo, nel nostro Paese, una tale cura per i dettagli? Avete notato la perfetta armonia, studiata fino al minimo particolare, tra la plumbea fotografia e la claustrofobica colonna sonora (tanto per fare un paio di nomi, Lali Puna e Mogwai)? E l'ammaliante gioco di specchi della regia? E l'essenzialità dei dialoghi, preceduti da interminabili silenzi o profondi monologhi, sintetici seppur esaustivi?? E Toni Servillo? Quanto è bravo Toni Servillo?

   Geniale ed originale, Sorrentino intitola in modo volutamente fuorviante la storia di uomo che si ritrova coinvolto in qualcosa di più grande di lui, rinchiuso in un albergo contro la sua volontà, incatenato ad una vita che non era la sua. Eppure ad un certo punto Titta Di Girolamo (è questo il suo nome) annota su un block notes, quasi dovesse ricordarsi di fare una chiamata il giorno dopo, "non sottovalutare le conseguenze dell'amore": frase profetica, che segnerà la conclusione e si rivelerà filo conduttore di tutta l'evoluzione narrativa.

   Lungo il percorso trova spazio anche l'inventiva registica: si pensi al montaggio durante il colloquio con il collegio, un puzzle temporale. Ma soprattutto, e ci tengo ad evidenziarlo, un'originalità nell'assemblaggio dei singoli elementi: la sequenza in automobile con in sottofondo, violentemente e stridentemente, Ornella Vanoni con "Rossetto e Cioccolato", bellissima, stupenda! In tutto ciò ho ritrovato qualcosa di grande, qualcosa che davvero torna a far sperare per il futuro. Un'opera grande ed impegnata, moderna, ammirevole. 

   E non fa niente se poi il confronto con il vero cinema d'oltre oceano di Sorrentino non si sia poi rivelato all'altezza delle aspettative, This Must Be The Place non è stato proprio un capolavoro, ma questa è un'altra storia. L'importante è aver dimostrato che, se vogliamo, possiamo fare qualcosa di importante anche noi, e lo facciamo anche bene. Bravo Sorrentino, bravo.

  

Super.

Super.
James Gunn, 2010.

   Perché non accade mai che una persona qualunque indossi un costume improvvisato e dopo aver trovato un nome d'effetto inizi a lottare contro il crimine? Perché nessuno ha mai pensato di fare giustizia da sè con armi inventate e costruite nel proprio garage?? Semplice, perché è illegale. Eppure nel cinema sono molti a chiederselo, ultimamente. Ellen Page compresa. Ma la cosa ci sta più che bene: di pellicole su millantanti super eroi, goffi e ridicoli, ne sono uscite diverse, tanto che viene naturale chiedersi quanto si potrà innovare rispetto alla precedente e quanto questa moda smetterà di fruttare a sufficienza. Ma al momento ognuna di esse è riuscita a ritagliarsi uno spazio suo, rimanendo unica nonostante enormi punti in comune.

   In Super il protagonista, Frank D'Arbo (interpretato da Rainn Wilson) sostiene di aver vissuto solamente due momenti perfetti nella sua vita: quello in cui ha sposato la moglie Sarah (Liv Tyler), ex tossico dipendente che sta ricadendo nel mondo della droga e della mala vita, e quello in cui ha fermato un lado in fuga. Lasciato da Sarah cerca di compensare il vuoto concentrandosi sul secondo episodio: dopo una delle sue tante visioni deciderà infatti di diventare la Saetta Purpurea e di lottare il crimine con una chiave inglese. Ad affiancarlo interverrà saettina, Libby (Ellen Page), commessa nel negozio di fumetti dove Frank ha preso ispirazione.

   Quel che rende Super unico nel suo genere è il non essere un dolce compromesso tra azione ed ironia, tra commedia e splatter, come spesso accade. É l'essere l'uno e l'altro estremo, insieme. Super è totalmente idiota, totalmente violento e splatter, totalmente drammatico. Non lasciatevi ingannare dal trailer italiano il quale è riuscito a mostrare gli unici due pezzi con le scritte colorate à la indie ed ha giustamente fatto notare che i protagonisti sono gli stessi di Juno, molto rilevante. Super è un film per chi è forte di stomaco, per chi apprezza l'ironia più scorretta, per tutti quelli che non si imbarazzano facilmente.

   L'altra caratteristica consiste nella totale pazzia dei due personaggi protagonisti. Frank è seguito da visioni sin da bambino: lo stesso progetto di Saetta Purpurea inizia dopo essere stato toccato dal dito di Dio. Anni di umiliazioni lo hanno portato ad accumulare parecchio rancore, tanto da non riuscire a distinguere con chiarezza il bene dal male. Libby è invece una sociopatica, pazza in modo certamente più inquietante. Uno dei personaggi più belli che si possa trovare sul grande schermo: folle, scorretto, violento, volgare ed imbarazzante. Non a caso le è stata riservata una uscita di scena indelebile.

   Mirevole l'immaginazione di Gunn, nel districare la trama con colpi improvvisi ed inaspettati e nel far rivelare la pazzia dei protagonisti in modo graduale e sempre più sconvolgente. Soprattutto, nell'inventarsi una escalation finale commovente ed emozionante, risaltata dalla crudezza delle immagini di contorno: un finale difficile da dimenticare che chiude in modo perfetto questo film irriverentemente originale.

giovedì 27 ottobre 2011

Drive.

Drive.
Nicolas Winding Refn, 2011.

 

   In Drive i peronaggi principali sono due. C'è questo guidatore, the driver, che sembra vivere nella guida. E' freddo, lucido, uno spietato vendicatore. E' il numero uno nel suo campo. Poi c'è un uomo, un uomo al quale non viene dato nome rimanendo per lo più anonimo. Lui invece è premuroso, dal sorriso impacciato e sempre molto discreto. E' innamorato di una donna e del figlio di lei, e farebbe di tutto per proteggerli. Ora si da il caso che questi due personaggi siano in realtà uno solo, e che sia interpretato da Ryan Gosling, il quale ha avuto più occasioni per dimostrare che il suo talento vada ben al di la del suo incontestabile fascino.

   Certo non spicca per originalità, Drive: dalla trama, che vede il disperato tentativo di uscire dal mondo della criminalità pur ritrovandosene sempre coinvolti, trattato da innumerevoli film tra i quali il più recente è forse London Boulevard; l'amore per una donna, e rinunciare a quello che si cercava di costruire solo per lei; la vendetta. Nonché per il personaggio protagonista, questo uomo dalla doppia anima.

   Ciò nonostante ha conquistato il cuore di molti: sarà stata l'ineccepibile interpretazione dei protagonisti; sarà stata la mano ferma e decisa di Refn che gli è valsa il premio regia al Festival di Cannes e che ci ha regalato quella perfetta sequenza nell'ascensore; saranno stati i piccoli dettagli che hanno scandito l'evolversi degli eventi e la descrizione dei personaggi (prendete ad esempio la sequenza iniziale ed il dialogo al cellulare del guidatore, che mostra già chiaramente il suo carattere). O forse sarà semplicemente che il cinema è arte, e questa si manifesta in ogni occasione se c'è anima e se c'è bravura: non importano i pregiudizi, non importa la ripetitività, perché dove c'è arte non c'è mai banalità.

venerdì 2 settembre 2011

As good as it gets

As good as it gets.
James L. Brooks, 1997.

    Melvin Udall (Jack Nicholson) è un cinico, misantropo, razzista, omofobo schizofrenico, paradossalmente scrittore di romanzi sentimentali che nell'arco di pochi giorni si affeziona ad un cane, diventa amico di un pittore gay e si innamora perdutamente di una cameriera. Con il già noto tocco del buon autore di sitcom  (basta vedere, e ancor di più, Voglia di tenerezza) James L. Brooks riesce a raccontare storie lunghe secoli in poco più di due ore, che sembrano una lunga ventata di aria fresca grazie allo humor leggero e frizzante di cui può orgogliosamente vantarsi il produttore del cartone animato più divertente mai creato, e non c'è bisogno che lo nomini.

    Se c'è un pregio di cui il regista tanto nel suo primo successo quanto nel suo grande atteso ritorno può vantarsi è quello di disegnare con mano ferma, decisa ed ispirata i suoi personaggi, forti ed unici, ciascuno con una storia importante da raccontare. Seppur qualcosa è cambiato, i protagonisti restano fedeli a sè stessi nell'evolversi della storia, seguendo un iter psicologico coerente e credibile. Sembra uno studioso delle scienze sociali, quasi uno psicologo, James Brooks, per quanto realistiche sono le azioni delle sue creature cinematografiche e per quanto appropriati sono i loro pensieri ed i loro dialoghi in ogni circostanza, e per quanto vicine a ciascuno di noi sono le loro emozioni.

    Certo non si può negare l'importanza del cast, eccelso in ogni sfumatura ed in ogni occasione. Una fantastica Helen Hunt interpreta una madre impegnata, di quelle che uscendo la mattina di casa dimenticano di specchiarsi, che uscendo con un uomo non si preoccupano di un po' di vomito sul vestito, ma che soprattutto non hanno più confidenza con quella sensazione di leggerezza che si prova quando non hai il peso di una vita sulle tue sole spalle; perfetta in questo ruolo. Fantastico come sempre Jack Nicholson che nel ruolo di psicopatico rende il meglio senza perdere l'irresistibile fascino che caratterizza il suo volto anche se oramai segnato dalle rughe. Non so voi, ma io mi sarei subito innamorata di un Garret o di Melvin così: grande connubio Brooks/Nicholson, che non a caso è valso due oscar all'attore.

    Una romantica commedia, anche profonda e commovente, dai toni leggeri e colorati, di facile visione che non può non addolcire almeno un po' l'animo dello spettatore. 

Milvin: [...] Diciamo che io ho... cos'è?... un disturbo?... Il mio dottore, uno psicoanalista dal quale andavo sempre, dice che nel 50-60% dei casi una pillola può aiutare molto. Io odio le pillole, roba molto pericolosa le pillole, odio. Bada bene uso la parola "odio" apposta, quando parlo di pillole. Odio! Il mio complimento è che quella sera che sei venuta da me e mi hai detto che non avresti mai... beh, insomma, tu c'eri quella sera e lo sai, quello che hai detto. Beh, il mio complimento per te è che... la mattina dopo, ho cominciato a prendere le pillole.
Carol: ...non capisco come possa essere un complimento per me.
Melvin: ...mi fai venire voglia di essere un uomo migliore.
Carol: ...questo è forse il più bel complimento della mia vita!

giovedì 1 settembre 2011

Le fabuleux destin d'Amélie Poulain.

Le fabuleux destin d'Amélie Poulain
Jean -Pierre Jeunet, 2001.
    
    Che meraviglia il mondo dei bambini: candido e fantasioso, incantevole e capace di trasformare la più amara delle atrocità in una favola. Merito della fantasia che trasforma gli occhi in delle lenti dai colori dell'arcobaleno e dell'intimo rapporto che ogni bambino ha con il proprio io, ancora scevro delle influenze delle pressioni sociali. Difficile, quasi impossibile mantenere questo rapporto col proprio fanciullo interiore col passare degli anni, altrettanto lo è trasporlo sullo schermo.

    Favoloso per davvero il mondo di Amélie, o meglio il mondo creato da Jeunet, lezione di vita per ogni adulto dei tempi moderni. Senza compromessi mostra quanto poco possa bastare per aprire gli occhi alle persone e far vedere loro il bello del quotidiano. Anche e soprattutto grazie alla fantasia che  può sfociare in vera e propria menzogna: amare in base ad una piccola bugia è meglio che restare soli; credere di essere stati amati dopo un abile sotterfugio può mettere a tacere anni di tormenti; riprendere a vivere dopo che anche il tuo nano da giardino ha deciso di visitare il mondo è meglio che restare a casa a rimpiangere gli anni che furono. È il mondo della fantasia contro la realtà, il mondo visto e guardato col cuore contro quello visto con gli occhi. In fondo a cosa serve la fantasia se non a rendere più sopportabile il mondo reale?

    I personaggi sono disegnati con loquace essenzialità: piccoli dettagli per lo più insignificanti che possono svelare tutto ciò che serve con un po' di immaginazione. Incantevoli i protagonisti, come le loro storie. Ammalianti fotografia e colonna sonora. E si potrebbe analizzare minuziosamente ogni dettaglio, ma si sminuirebbe la perfezione del gioco di alchimia di così rara riuscita.

    Una favola moderna da guardare con gli occhi del sognatore, quelli che abbiamo sempre chiusi accecati dal cinismo odierno. Romantico e divertente, a tratti malinconico, è molto più che un film qualsiasi: una guida di sopravvivenza per chi nel frastuono del 21imo secolo cerca ancora disperatamente di salvare la propria innocenza e la propria genuinità.

domenica 28 agosto 2011

London Boulevard

London Boulevard
William Monahan, 2010
    Ci si poteva aspettare molto dal primo lavoro come regista e sceneggiatore di colui il quale ha portato con secoli di ritardo Martin Scorsese all'oscar. Si poteva, ma anche no: io ad esempio non ho mai sopravvalutato troppo il lavoro ed il merito di Monahan per The Departed, tenendo bene a mente che la sceneggiatura altro non è che un adattamento di Infernal Affairs, gangster movie di Hong Kong, che gli spianava il campo.
    London Boulevard mostrava le carte per essere un thriller ottimo, stimolando la curiosità dello spettatore per la mano del citato Monahan, stuzzicando gli ormoni di ambo i sessi grazie ai due protagonisti Colin Farrell e Keira Knightley, presentandosi con un trailer che astutamente nasconde le falle della sceneggiatura.
    In fondo sarebbe bastato poco a far quanto meno prestare un po' di attenzione alla pellicola, ma il risultato è stato alquanto fallimentare.

    Mitchell appena uscito di prigione cerca di trovare un lavoro onesto, proteggendo una star del cinema che a seguito di un dramma personale decide di abbandonare il mondo dello spettacolo ed è per questo ossessionata dai paparazzi. Tradire la propria natura criminale, ancorata al mondo esterno ma soprattutto a quello interno, non è mai facile ed uscire dai giri della mala vita richiede soluzioni drastiche.
    Il difetto più grande di London Boulevard è quello di non riuscire a sviluppare a fondo nessuna delle intense tematiche presenti nelle sceneggiatura, soprattutto quelle inerenti al protagonista (Colin Farrell) che non sa per quali dei suoi infiniti turbamenti esistenziali corrucciare la fronte, circondato da drammi peronali, familiari e sentimentali di ogni tipo. La co-protagonista, invece, pare appena accennata ed il loro inevitabile intreccio amoroso viene disegnato svogliatamente. Ogni personaggio sembra essere inserito per fare brodo (la sorella di Mitchell con problemi di alcolismo soprattutto, considerando il modo in cui entra ed esce di scena passando per lo più inosservata) ma quel che è peggio è come i protagonisti sembrino una comoda caricatura fatta con mano pesante di un duro e di un star del cinema, come solo in un film di serie C.
    Discontinuità narrativa evidenziata da un montaggio farraginoso e nervoso.

    Positivi i minuti finali, nei quali viene sfoggiata una originale e  fresca vena satirica eliminando l'eccesso di serietà con la quale il film è preso sin dall'inizio, terminando lo scontro principale dei due antogonisti in modo leggero e quindi contrastante col resto del film.
    Escalation terminante in un momento infinito di amarezza e riflessione, l'unico veramente profondo degli ultimi 100 minuti, dal quale si può trovare spunto per digressioni  filosofiche sul libero arbitrio individuale, sulla posizione inerme dell'uomo di fronte all'imposizione della massa, della società, del proprio passato e del proprio destino, anche se la più grande amarezza è dovuta dal pensiero di quanto avrebbe potuto essere bello questo film, ed invece no.

venerdì 3 giugno 2011

Terms of Endearment

Terms of Endearment
James L. Brooks, 1983
Voglia di tenerezza, la senti per davvero guardando Emma crescere, in costante conflitto con la madre, sposarsi, diventare lei madre, sopportare i dolori della vita; e Aurora, con le sue fragilità, la costante ricerca dell'appoggio nell'unica persona che sarà sempre con lei, la figlia, il suo senso del possesso e la necessità di avere tutto sotto controllo; e Garret, un adorabilmente sfacciato Jack Nicholson, astronauta sciupafemmine nel disperato tentativo di nascondere il suo lato umano. 

Questo dramma, che crede di essere una commedia, sa come rendere partecipe lo spettatore, accompagnandolo passo passo lungo mezzo secolo di vita di queste due donne, mostrando poco per volta, ma sempre quel che basta per comprenderle ed immedesimarsi: la fobia della madre sin da quando la figlia era in fasce, il suo bisogno di cure ed attenzioni dalla morte del marito; la genuinità di Emma, sempre più bella e forte.

Dialoghi calzanti, commoventi, più che capaci di coinvolgerti nel turbinio di emozioni in gioco: come dimenticare l'ultimo discorso di Emma ai figli? O la confessione di Aurora sui propri sentimenti resa alla figlia? Spesso bastano poche parole combinate nel modo giusto per far dare forma ai sentimenti più veri perché, non dimentichiamocelo, le parole sono importanti.
Ogni scelta loro è come se fosse tua, ogni loro sofferenza è un po' la tua.  Sbalzi temporali repentini e situazioni ilari alleggeriscono un racconto quanto più minuzioso, quanto più carico possibile.
132 minuti per raccontare una vita, molto più di quanto ci si possa immaginare. Cose che solo una mano capace poteva coordinare ed un cast eccellente interpretare, non a caso valse 5 (e quali!) premi oscar: miglior film,  miglior regia, miglior sceneggiatura non originale, miglior attrice protagonista (Shirley McLaine) ed attore  non protagonista (Jack Nicholson).

132 minuti per capire che non importa l'età, o da quanti anni non si fa più l'amore; non importa quanto si è sofferto, quante volte si è strati traditi, quante volte si è stati costretti a perdonare; non importa quanti anni di matrimonio, quanti figli, quanti problemi si hanno; non importa che le paure ti bloccano, ed il tempo passa, e la vita di sfugge via; che tu sia casilinga o astronauta, non importa: si ha sempre voglia di tenerezza.


Aurora: "Di un po', ti provoca qualche reazione sentirmi dire che ti amo?
Garret: "Ed io che credevo di essermela scampata.."
Aurora: "Bé, ora sei in trappola, quindi tanto vale affrontarlo."
Garret: "Non so che altro dire se non la mia frase di circostanza."
Aurora: "E cioé?"
Garret: "Ti amo anch'io, piccola."



venerdì 27 maggio 2011

Brazil

Brazil
Terry Gilliam, 1985
Capita, alcune volte, che un film ti violenti, imponendosi quasi come una visione forzata, dando l'impressione che le pareti claustrofobicamente si restringano. Vorresti porre fine all'angoscia ma non puoi, perché in qualche modo questa merda funziona e non riesci a cambiare canale.
Così con Brazil, frutto del genio di Terry Gilliam ispirato dal romanzo di Orwell "1984": inquietante all'inverosimile, angosciante e onirico, dai toni cupi della black comedy, e con un messaggio impegnativo il cui senso compiuto si coglie solo a visione completa.

Dopo averci dormito su ho ripensato molto a questa pellicola, riconducendola passo dopo passo agli studi di diritto penale.
Una volta un uomo saggio mi ha detto di pensare al diritto penale come ad una coperta: più la tiri su, più i  piedi si scoprono. La testa rappresenta la sicurezza, l'ordine pubblico, mentre i piedi sono la libertà che più rimangono al freddo più risultano (metaforicamente, s'intende) compressi.
Come purtroppo la storia ci ha insegnato, non è del tutto inimmaginabile una società nella quale ogni comportamento viene imposto dall'alto, sia esso il pagamento dei tributi, sia la riparazione di un condizionatore, basta creare una nuova figura di reato e coercire la volontà ed annientare il libero arbitrio del singolo.
E gli studi hanno evidenziato come, se è vero che ad azione corrisponde un'adeguata reazione naturalmente consequenziale, in tal caso la risposta all'egemonia burocratica e dittatoriale è il caos: quando il cittadino non avverte la "giustizia" come tale nel suo valore intriseco, quando la pena non è commisurata alla lesione del bene protetto e soprattutto alla sua meritevolezza di essere protetto, viene a mancare il rispetto per le istituzioni, viene a mancare la molla che spinge il cittadino alla spontanea collaborazione con l'ordinamento ed anzi, si commettono i crimini più efferati.

Tutto ciò è mostrato in maniera didascalicamente confusionale e tetra da Gilliam, che riesce a trasmettere con l'ausilio di ogni mezzo audio-visivo ciò che a parole non è così immediato.
Viene dipinta una società futuristica, opprimente, dove ogni comportamento pare essere pre-modellato dal potere dittatore ma dove niente sembra essere percepito come immorale od ingiusto, dove di fronte ad innumerevoli attentati terroristici la gente è oramai insensibile.
Sam Lowry (Jonathan Pryce) insegue una fantomatica donna che ricorre ogni notte nei suoi sogni, infrangendo ogni tipo di regola gli si frapponesse, lottando con tutte le sue forze pur di raggiungerla, salvo poi perderla immediatamente dopo tanti sforzi. Un po' come se si stesse parlando della libertà.
Robert De Niro, ancora splendente, interpreta Tuttle, un pluriricercato che col suo senso di ribellione sembra l'unico collegamento con la realtà.

Stridente si sente in sottofondo la melodica Brazil, istintivamente ricollegata a scenari festosi e caraibici, ma in realtà un inno all'evasione.


martedì 17 maggio 2011

Source Code

Source Code
Duncan Jones, 2011
Se alla sua opera prima tutti gli occhi erano puntati su Duncan Jones per la risaputa provenienza familiare, questa volta lo erano di nuovo ed ancor di più per via della sorprendente riuscita dello stesso Moon, a suo modo un capolavoro nel genere: comprensibile anche se intricato, umano prima che fantascientifico.

Anche se meno ineccepibile, Source Code raggiunge gli stessi traguardi, anche perché strutturalmente molto, forse troppo, simile al predecessore. 
Meno ineccepibile: di fatti, l'intera visione mi è stata rovinata da un grossolano errore di logica proprio del funzionamento stesso del source code. Certo, in un film di fantascienza tutto è possibile perché, appunto, fantascienza, ma se ci si dimestica con tentativi di spiegazioni logiche allora queste debbono essere necessariamente coerenti non già con le leggi della fisica a noi note (altrimenti non sarebbe fantscienza), ma semplicemente con loro stesse. E questo manca in Source Code perché, anche se alla fine viene svelato un meccanismo diverso (che anche se più drastico è paradossalmente più accettabile in termini di logica), ciò che non mi convince è che qualcuno abbia anche solo potuto pensare che funzionasse diversamente: non è credibile e basta.

Ora, l'essersi ripreso in calcio d'angolo mi ha permesso di apprezzare la godibilità del film, che in questo aspetto si differenzia notevolmente dagli altri del genere. Infatti viene messo in risalto l'aspetto umano dei protagonisti, anche con piccole frasi, dette quasi per caso ma d'effetto, con piccoli gesti, o sguardi fugaci, e sempre più nel finale con grandi rinunce e ribellioni. Anche i personaggi di contorno sembrano avere un proprio ruolo, dei caratteri ben definiti che li distinguono da ogni altro, sia questo uno studente un po' impacciato, o un comico scontroso, o un innocente sospettato.

Ed in fondo Source Code non parla semplicemente di un soldato che con mezzi solo immaginabili ripercorre otto minuti già scritti nella storia, a guardare più da vicino parla dell'insotenibile pesantezza dell'essere, quella che Milan Kundera descriveva come l'insopportabile ripetersi di un evento nel tempo: ed in questa prospettiva appare chiara la scelta di Colter (Jake Gyllenhaal) e la sua richiesta a Goodwin (una Vera Farmiga perfetta in ogni espressione).
Ed oltre a ciò parla anche di come un uomo, un soldato ma pur sempre un uomo, assapora i suoi ultimi otto minuti di vita. Voi, cosa fareste se vi restassero solo otto minuti da vivere?

Inizia il countdown per il prossimo lavoro di Duncan Jones, oramai uno dei nomi più allettanti tra i registi emergenti, sperando non si ripeta ulteriormente nell'impostazione, mostrandoci l'imprescindibile carattere per un regista di talento della volubilità.

sabato 14 maggio 2011

Never Let Me Go

Never Let Me Go
Mark Romanek, 2010




Quanto fanno male i pregiudizi ad un film, qualsiasi film e qualsiasi tipo di pregiudizi. Io, ad esempio, credevo che Never Let Me Go parlasse di un amore che trascende i confini, che supera qualsiasi barriera. Credevo fosse la storia di tre amici d'infanzia che una volta adolescenti si scontravano in una sorta di triangolo amoroso. Credevo mi avrebbe commossa e fatto piangere.
Non è stato niente di tutto ciò, e la visione mi ha profondamente delusa.
Poi, all'improvviso, l'illuminazione. All'improvviso ho capito che parlava di tutt'altro.

Never Let Me Go è la descrizione di cos'è l'uomo messo davanti alla morte mettendo in evidenza le paure più egoiste e l'ipocrisia con la quale cerca di camuffare questa sporca natura, lasciandosi un margine alla fine per pulirsi la coscienza. Più ci penso e più mi sembra che ogni singolo pezzo del puzzle di Never Let Me Go si incastri alla perfezione in questa visione: Ruth tradisce la sua migliore amica senza pensarci due volte nel disperato tentativo di aggrapparsi alla vita, una vita affianco a qualcuno per non essere lasciata sola; Tommy pare dimenticarsi della ragazza che l'ha amato da subito e non gli ha mai voltato le spalle, salvo poi ricordarsene ad anni di disanza, apparentemente solo per avere un futuro; la società, dal canto suo, usa degli esseri umani come cavie appunto per avere un'àncora di salvezza.
L'unica persona realmente umana in tutto ciò è Kathy, la protagonista interpretata dalla dolcissima e talentuosa Carey Mulligan. Le sue azioni sono tutte sincere, spontanee, mosse dall'amore. Anche quando si allontana per diventare assistente e, di fatto, ritardare il suo destino per diversi anni, lei lo fa per non soffrire a causa dell'amore. Quando poi perdona la sua migliore amica ed il ragazzo che ha amato, lo fa per amore, amore sincero, non per doppi fini.. Dimostrando che un'anima ce l'ha.

E quando ho capito questo non ho provato commozione, ma un dolore quasi tangibile. Una sorta di sconforto ed un retrogusto amaro. La tipica sensazione che resta quando ci si accorge di una realtà che non si era messa bene a fuoco.

Ora, questo è il mio tentativo di salvere il salvabile, perché se non fosse per questo tranne la bella fotografia , qualche scena onestamente toccante o semplicemente simpatica (come la prima ordinazione al bar dei tre ragazzi), non mi sarebbe rimasto gran ché.
Premettendo di non aver letto il libro, posso dire che se il messaggio fosse stato qualsiasi altra cosa, in particolare tematiche di amore sincero e profondo, allora lo script avrebbe miseramente fallito, lasciandomi solo un senso di vuoto senza toccarmi minimamente.

lunedì 2 maggio 2011

The Resident

The Resident
Antti J. Jokinen, 2010

Diciamo che se avessi capito prima che quello lì non è Javier Bardem bensì la sua copia spiccicata Jeffrey Dean Morgan, ed avessi saputo che il regista ha un passato come regista di video musicali per cantanti del calibro di Celine Dion, Shania Twain ed i Westlife, bé, forse mi sarei fatta i fatti miei.  Pregiudizi. Sbagliati, tra l'altro. Non che il film mi abbia fatto impazzire, mi ha deusa ma per motivi molto diversi ed in un modo inaspettatto.

Innanziatutto l'idea di fondo ci sta tutta: Juliet (Hilary Swank) bella, affermata e single, si trasferisce in un appartamento nuovo, e come in ogni appartamento vuoto ogni rumore sembra suggerire la presenza di un serial killer appostato dietro le tende. I segnali di una presenza estranea aumentano Juliet inizia a prendere provvedimenti e quello che scopre è, a mio avviso, una verità agghiacciante. Niente di paranormale, anzi, qualcosa che potrebbe accadere anche con una certa facilità.

La prima parte del film si atteggia a thriller dalle tonalità horror. La particolarità sta nello spiegare gli avvenimenti con una storia parallela all'improvviso, giustificando credibilmente anche cose ai limiti dell'immaginazione, e facendo notare delle piccole finezze registiche.
A questo punto, però, le idee sono finite. La psicopatia viene dipinta in modo imbarazzante, si trovano degli espedienti ridicoli per far andare le cose in un certo modo, la sequenza finale è scialba. Hilary Swank a tratti si rivela intensa ed immedesimata, in altri è solo fredda, completamente assente.

Un bel thriller, anzi: un bel passatempo. Niente da annoverare tra i pezzi grossi del cinema ma, in fondo, una visione piacevole  quanto meno coinvolgente..
Uscita nelle sale italiane? Boh.

lunedì 25 aprile 2011

Rabbit Hole

Rabbit Hole
John Cameron Mitchell, 2010
Ci sono film che cercano di essere ricordati trattando argomenti delicati ed importanti in modo pomposo, a volte troppo calcato, descrivendo eventi eccezionali ai limiti della verosimiglianza. Un esempio? Million dollar baby, dai personaggi neri, senza sfumature, caratterizzato dal susseguirsi di eventi struggente e melodrammatico. Oppure 21 grammi, incredibilmente angosciante e denso di problematiche impegnative.

Rabbit Hole no. Rabbit Hole prende una questione difficile da gestire come il lutto di una madre che ha perso il suo unico figlio di soli 4 anni a causa di un incidente molto banale, e lo analizza minuziosamente nei suoi aspetti quotidiani e ingiustamente sottovalutati.
Rabbit Hole ti parla di questa madre, non credente, che a distanza di 8 mesi dall'incidente cura il suo giardino e prepara dei dolci e va a trovare la sua famiglia, ma non vuole uscire più e non vuole più fare l'amore con suo marito. Consapevole che nulla sarà più come prima cerca disperatamente una svolta, anche un semplice appiglio, cercando di mettere a tacere il ricordo e quindi il dolore, oppure parlandoci con questo ricordo, fino a ché non diventi una sequenza senza significato di immagini e rumori.

Nel raccontare questa toccante storia se ne mettono in evidenza gli aspetti più piccoli, rendendola reale, tangibile, e forse più commovente. In particolare mi è sembrato estremamente aderente alla realtà questo dialogo tra madre e figlia:

Becca: "Does it ever go away?"
Nat: "What?"
Becca: "This feeling.."
Nat: "No. I don't think it does. Not for me it hasn't. And that's goin' on eleven years. It changes though."
Becca: "How?"
Nat: "I don't know. The weight of it, I guess. At some point it becomes bearable. It turns into something you can crawl out from under, and carry around - like a brick in your pocket. And you forget it every once in a while, but then you reach in for whatever reason and there it is: oh right.. That.. Which can be awful. But not all the time. Sometimes it's kinda... Not that you like it exactly, but it's what you have instead of your son, so you don't wanna let go of it either. So you carry it around. And it doesn't go away, which is..."
Becca: "What?"
Nat: "Fine...actually."

Purtroppo ci sono un paio di scene poco convincenti appunto perché tradiscono il punto forte del film, ovvero la sua verosimiglianza, ma basta la sequenza finale dove la bravura della bellissima Nicole Kidman si sprigiona lentamente in tutta la sua drammaticità per dimenticarsene subito.

Rassicurante ma non troppo, senza così sfociare nell'happy ending (che sarebbe stato poco credibile), il finale, se contrapposto alla scena iniziale: mostra il cambiamento dei due genitori, che in entrambi i casi fingono di essere qualcosa che non sono, ma inizialmente lo fanno per ristagnare nel loro dolore, alla fine per fare il primo passo verso un cambiamento.

martedì 5 aprile 2011

Kick-Ass

Kick-Ass
Matthew Vaughn, 2010
    Dave sembra il protagonista di un teen-movie americano, quelli nei quali un ragazzo impacciato ed insoddisfatto della propria adolescenza cerca di svoltare raggiungendo la popolarità, generalmente per conquistare un ragazza. In Kick-Ass, però, decide ci infilarsi una tuta e difendere chi ne ha bisogno nonostante la totale assenza non solo di super poteri, ma anche di una semplice forma di forza fisica. Nella sua impresa incontra Hit Girl e Big Daddy, anche loro sprovvisti di super poteri ma decisamente più capaci nel campo, trovandosi coinvolto in un affare più grande di quanto potesse immaginare.

   Aspettavo l'uscita in Italia di Kick-Ass da tanto, troppo tempo, e alla fine ho creduto non sarebbe arrivata mai e l'ho visto per conto mio. Ed invece dopo un anno e mezzo dall'uscita americana è successo, ed è anche uscito incensurato seppur (giustamente) vietato ai minori di anni 14, e queste son cose belle nella vita. Sono cose belle perché sono certa il film meriti davvero, ma temo il pubblico medio italiano avrà difficoltà a capirlo.
Kick-Ass rappresenta infatti un'opera più unica che rara nel suo genere, riuscendo a creare un perfetto connubio tra generi diversi ed elementi discordanti, come l'umorismo (auto)caricaturale dei personaggi e la violenza spietata delle loro azioni, anche di Hit Girl: soprattutto di Hit Girl, che ha solo 12 anni ma è capace da sola di sterminare un'intera gang. In questo suo aspetto mi è parso di rivedere Shaun of the Dead, l'horror splatter-demenziale del bravissimo Edgar Wright, che io stessa non avevo inizialmente apprezzato perché troppo "strano", salvo poi ricredermi su tutta la linea e ritenerlo ora uno dei film demenziali meglio fatto e più originale che abbia mai visto. 
   
   Nel non prendersi troppo sul serio Kick-Ass non sfocia mai nel ridicolo. Alcune scene riescono a sorprenderti piacevolmente tenendo il livello d'attenzione sempre alto, in altre è la demenzialità più vera ad avere  il sopravvento, in altre ancora riesci a sentire la tensione o addirittura la commozione. Tutto questo senza risultare mai pesante o troppo calcato, grazie alla bravura della regia e del recitato, alla colonna sonora trascinante ed, ovviamente, alla brillante sceneggiatura tratta dall'omonimo fumetto uscito pochissimi mesi prima del film.
Scansato ottimamente il rischio di rendere il film un teen-movie alternativo, o ancora peggio un film su come l'amicizia possa trascendere il bene ed il male.
Bravi sia Aaron Johnson che Christopher  Mintz-Plasse, che mi hanno fatto morir dal ridere al ritmo di Crazy di Gnarls Barkley; deliziosa Chloe Moretz e grande anche Nicolas Cage.

   Un film da non perdere, anche se certamente non per tutti i gusti, indiscutibilmente originale e del quale mi auguro vivamente ci sia un sequel.

sabato 2 aprile 2011

No Strings Attached

No Strings Attached
Ivan Reitman, 2011
   Adam ed Emma iniziano a fare sesso tra di loro promettendosi, e questa è nuova, di non innamorarsi l'uno dell'altra. Ma indovinate un po' come va' a finire??

   Se c'è una cosa che mi ha spinto a vedere questo film è la sconvolgente bravura (e bellezza) di Natalie Portman. A visione conclusa ho trovato poi altri punti positivi: Natalie Portman che finge di rotearsi il pene, Natalie Portman che salta fuori da dietro il divano per terrorizzare due povere ragazze, la canzone dei Phoenix nella colonna sonora, un paio di battute che ho rimosso (forse), e vedere Natalie Portman fare qualsiasi altra cosa.

   Per il resto è talmente tanto banale che non vale la pena parlarne per quanto sarebbero banali anche le critiche: uh, hai visto il titolo italiano? che barba, la solita commedia a lieto fine.. eccetera eccetera..
Ad ogni modo sono giunta alla conlusione che "No strings attached" è più o meno l'"Harry ti presento Sally" dei giorni nostri, più disinibito e meno riuscito. Infatti i protagonisti si incontrano 3-4 volte nell'arco di svariati anni, dopodiché iniziano a frequentarsi: in Harry ti presento Sally come amici. Nel 2011, dopo un'adolescenza passata a guardare l'interminabile storia di amicizia - amore platonico tra Dawson e Joy che ha, diciamo, saturato la nostra pazienza per qualsiasi cosa si avvicini a tutto questo, i protagonisti iniziano a fare sesso: senza amore, però.
Il finale è lo stesso, ma poco importa: se volete vedere un bel film al cinema andate a vedere qualsiasi altra cosa, tipo, chessò, Kick-Ass, che li spacca letteralmente i culi, o Non lasciarmi, così, tanto per dire..
Se invece volevate passare la serata a pomiciare ma per qualsivoglia motivo non potete, allora scaricate illegalmente una pessima versione di No strings attached, rifornitevi di cookies ad 85 cents e passate una piacevole serata!

Paul

Paul
Greg Mottola, 2011
    Paul è il nome di un alieno, atterrato sulla terra e tenuto prigioniero dalle forze militari negli anni '60 ed ora inseguito dalle stesse per carpirne gli ultimi segreti. Nella sua fuga Paul incontra Greame e Clive, due nerd interpretati da Simon Pegg e Nick Frost.

   E' bello di tanto in tanto trovare un film che sei certo sarà un piacere per lo spirito: una ventata d'aria fresca per lo humor, atrofizzato dalla miriade di filmetti la cui comicità è basata su gag volgari e banalotte. Di tanto in tanto, poi, oltre ed essere dei film estremamente piacevole escono fuori dei veri e propri capolavori del genere. Che questo sia il caso di Paul, però, aspetterei a dirlo.

   Certamente Simon Pegg e Nick Frost sono esilaranti senza neanche bisogno che apran bocca, figuriamoci poi se prendono carta e penna e buttano giù la sceneggiatura. Così Greg Mottola quale regista di commedia non se la cava male (per quanto io personalmente non abbia trovato niente di ché in Adventureland, apprezzando gradualmente sempre più, invece, la demenzialità di Sux Bad). Oltre a questo, Paul ci offre una comicità semplice ma coinvolgente, niente di troppo elaborato. A volte bastano delle espressioni o delle circostanze imbarazzanti, spesso una cosa che salta fuori dal nulla all'improvviso. Anche un po' sfacciata, questa comicità, che non si preoccupa di essere troppo schierata o cruenta in alcune occasioni. Inoltre in Paul rivediamo Jason Bateman nei panni di un bel personaggio, non uno di quelli che ti fanno venir voglia di picchiare lo sceneggiatore, ed interpretato bene perché, oh, lui è bravo.

   In fin dei conti non manca niente al film, nessun elemento in particolare. Difetta però di un qualcosa, pregiudicato proprio dal suo punto di forza: la semplicità. Di fatti ciò che più colpisce è il modo lineare di sviluppare la trama e di strappare una risata allo spettatore, senza troppo impegno. Ed in ciò incronta il suo limite, non superando la soglia della commedia (estremamente) piacevole. 
   Io dico, tuttavia, che non è poco.
    Venerdì 13 (uuh) Maggio dovrebbe uscire in Italia, a quanto pare.

lunedì 31 gennaio 2011

The Green Hornet

The Green Hornet
Michel Gondry, 2011
Michel Gondry è qualcosa come uno dei miei, toh, 5 registi preferiti, il regista al quale affiderei l'adattamento cinematografico di un romanzo del mio autore preferito (David Grossman), per intenderci (Eternal Sunshine of the Spotless Mind il mio film preferito di tutti i tempi, tutti). Amo la cura per i dettagli e come dipinge i suoi personaggi evidenziandone pregi e difetti, e come narra la storia non necessariamente con eventi di particolare rilevanza, ma con le piccole cose quotidiane che sono più vicine allo spettatore. Mi esalta la regia surreale.
E poi, adoro la piega che molti film su supereroi o pretesi tali ha preso da un po' di tempo a questa parte: degli action movie ironici, sì, ma non risibili, leggeri ma non necessariamente svogliati e superficiali. Come ad esempio Iron Man (il primo, non l'ultimo che fa un po' schifo) e soprattutto Kick-Ass.

The Green Hornet pensavo sarebbe stata una scommessa rischiosa, ma dall'alto potenziale per diventare qualcosa di speciale, mai vista prima. Mi ero illusa che sarebbe riuscito ad amalgamare perfettamente questi due miei amati generi così discordanti senza risultare forzato.
A meno di 24 ore dalla visione però sento ancora l'amaro in bocca.

In una sceneggiatura generalmente banale, dall'inizio lento e melenso, piena di personaggi già visti (in film, tra l'altro, di non ottima qualità) si salvano solo qualche scambio di battute ed un paio di gag, e qualche dettaglio registico. Prendiamo la sequenza di Kato che prepara il cappucino, che accenna ad un personaggio che diventerà poi il vero eroe senza neanche riprenderlo in faccia. Oppure il momento in cui Britt Reid mette a fuoco tutti i pezzi del puzzle (data la debolezza della sceneggiatura mi vergogno un po' a chiamarlo così..) e vede lo scenario attorno annerirsi (come accadde a Joel in Eternal Sunshine), e poi ricostruisce tutti i passaggi a mo' di fumetto, sintetico ed efficace. Ecco, per me questi sono piccoli dettagli che se tenuti per tutta la durata del film lo avrebbero reso qualcosa di più che un godibile intrattenimento fine a se stesso. 
Solo che Gondry forza la sua natura, e nel tentativo di avvicinarsi più ai canoni standard dell'action movie mette in scena cose come la focalizzazione degli obiettivi prima di passare all'azione di Kato, e poi anche di The Green Hornet, toccando il fondo e risalendo subito dopo solo per quella bellissima caduta. Insomma, forse se Gondry fosse rimasto fedele allo stile registico che più gli si addice il risultato finale sarebbe stato più fluido, si sarebbe quanto meno distinto. 
Ed invece no. Alla fine abbiamo solo un film molto godibile, e niente più.

Per concludere diamo un'occhiatina al Paese in cui viviamo.
Il pubblico dal canto suo va al cinema convinto di andare a vedere ciò che si è preparato a vedere dal trailer, che facevano sembrare il film non ironico, bensì comico. Ed ecco che basta una battuta sciocca a far scoppiare fastidiose risate in tutto il cinema. Per non parlare di quando Seth Rogen ha detto "paaaaallleeeeee". Il panico.
I traduttori, dal canto loro, hanno fatto molto peggio. "Sì, si chiamerà Il Calabrone Verde. Però d'ora in poi lo chiameremo in inglese, perché fa più figo". No, dico. Seriously?! (lo dico in inglese perché fa più figo)
Per l'amor del cielo, mi sono sentita umiliata. Sembrava una scena tipo dei Griffin dove prendono per il culo qualcuno con esagerazioni oltre l'inverosimile, ma noi lo facciamo seriamente! 
No, ma che dico, neanche il programma scientifico riadattato dai mangiapanocchie degli stessi Griffin aveva fatto un doppiaggio tanto stronzo.
Ma vaffanculo.

sabato 29 gennaio 2011

True Grit

True Grit
Joel and Ethan Coen, 2010
"People do not give it credence that a young girl could leave
home and go off in the wintertime to avenge her father’s
blood, but it did happen."


Questo è l'incipit di True Grit, l'ultima opera dei fratelli Coen, che racconta la trama molto meglio di quanto potessi fare io. E così salto una parte che mi sta tanto antipatica.

Innanzitutto questo è il film col quale il Drugo si ricongiunge ai Coen, ed allora proprio non si può aspettare: non appena puoi lo vedi. E soprattutto non aspetti l'uscita al cinema in Italia, perché doppiato no, meglio di no. Come si fa a doppiare la voce di Jeff Bridges? Inconcepibile.
 E poi, come accennato, è un film dei Coen. E lo sappiamo tutti, il film peggiore dei Coen è quantomeno godibile. True Grit sembrava (dalle locandine, dal trailer, dalla trama, da tutte le premesse) sembrava, ed effettivamente E', un gran bel film.

I registi dipingono uno scenario fedele all'originale, con personaggi caratterizzanti,  evidenziando la mentalità del posto (e del tempo), l'ignoranza e la squilibrata concezione della giustizia. Allo stesso tempo rendono loro il film, grazie soprattutto ai dialoghi, come sempre brillanti ed ironici. Il risultato finale è pulito, scorrevole. La fotografia e la regia smussano gli angoli ruvidi propri dei western, trasportati in questo remake dall'aspetto rude dei personaggi, dalle sequenze cruente, dall'alcolismo, e dalla voce roca e graffiante di Jeff Bridges. I dialoghi, invece, danno colore: basti pensare alle negoziazioni della bambina. Un connubio perfetto.
Infine: impossibile non elogiare i protagonisti, soprattutto Jeff Bridges che, vabbé, non ha più bisogno di darci conferme, e la giovane, giovanissima Hailee Steinfeld. 14 anni. Cristo.


Rinnovando il consiglio di vederlo in lingua originale, sappiate che in Italia l'uscita è prevista per il 18 febbraio. Molti candidati all'oscar escono in questo periodo in Italia. Che coincidenza.



martedì 18 gennaio 2011

Step Brothers

Step Brothers
Adam McKay, 2008.


Due bamboccioni (Will Ferrell e John Reilly) a quarant'anni vivono ancora rispettivamente con la madre ed il padre: non lavorano, non aiutano in casa, hanno gli stessi hobby di un adolescente in piena crisi ormonale e si fanno pestare dai bambini delle elementari. I rispettivi genitori si conoscono, si innamorano e decidono di andare a convivere insieme. Ovviamente se un figlio quarantenne è difficile da sopportare in casa figuriamoci due.

Se Talladega Nights riesce a strapparti qualche risata, o quanto meno a scivolarti addosso senza grossi traumi, con Step Brothers Adam McKay fa molto di più, irritandoti come pochi sanno fare.
Procede in modo ruvido, la pellicola fa attrito con l'intelligenza dello spettatore.
Le gag sono per lo più scontate, idiote, fanno leva sull'uso smodato di parolacce e riferimenti al sesso ed agli organi genitali. I personaggi sono fastidiosi ed il contesto è sempre molto imbarazzante. Come se non bastasse la storia è piena zeppa di moralismi e di comportamenti buonisti, dove anche i più stronzi alla fine diventano buoni e c'è un lieto fine per ogni, singola, cosa, mandando all'aria quel po' di dignità che era rimasta.

Insomma, un bel film di merda che ci regala un sacco di momenti di imbarazzo misto a fastidio, ed anche un po' di ribrezzo. Un film che non ha assolutamente niente per cui valga pena essere visto, se non Will Ferrel che canta “Con te partirò” in spagnolo che, non so perché, mi mette tanta gioia.

lunedì 17 gennaio 2011

Talladega Nights

Talladega Nights: the Ballad of Ricky Bobby
Adam McKey, 2006.

Tanto per chiarire le cose sin dall'inizio Ricky Bobby non è affatto la storia di un uomo che sapeva contare fino ad uno. E sì, sarebbe piaciuto anche a me, ma sono stata tratta in inganno anch'io dai titolisti italiani.
Detto ciò mi preme chiarire un secondo punto: ci sono due tipi di demenzialità accettabili nel cinema, secondo il mio modesto parere. Uno è la demenzialità geniale, quella dei film di Edgar Wright, per intenderci. L'altro è quella talmente idiota da fare il giro completo del buon senso e tornare al punto uno (la demenza geniale), come Zoolander, per esempio. Tutto il resto è spazzatura. Al massimo si salveranno un paio di punti ma ho seri dubbi che il gioco valga la candela.
L'arduo sta nel fatto che tra queste sfaccettature c'è una linea di confine molto, molto sottile.
A quanto pare Adam McKey cerca la strada più scontata e si adagia su vecchi trucchetti: innanzitutto l'appoggio del solito Will Ferrell (il non più sinonimo di garanzia Will Ferrell); il personaggio principale stupido, egocentrico ed immaturo; il suo amico altrettanto scemo col quale ha un perverso rapporto che sfiora ed a volte oltrepassa l'omosessualità. E poi tanti altri punti fermi del cinema demenziale: scene portate al paradosso, cinismo, totale mancanza di riverenza per la decenza altrui.

Ma bastano tutte queste cose a soddisfare l'arduo compito di rendere un film di puro non sense un film degno d'essere chiamato tale? Questa retorica domanda dovrebbe far capire che a me, Ricky Bobby, non è piaciuto mica sto granché.

Il problema sta tutto qui: amalgare gli elementi con un po' di razionalità. Se ci si limita ad infilare delle scene risibili qua e la senza creare un filo conduttore allora la cosa non sta in piedi, si rischia di far addormentare lo spettatore prima di metà film. E non riesco a non paragonarlo a The Other Guys - I Poliziotti di Riserva, opera ultima di Adam McKey e Will Ferrell non (ancora, spero) uscita nel nostro amatissimo Paese. Anche qui gli elementi sono, mutatis mutandis, gli stessi. E nonostante qualche uscita fuori luogo ("sono un pavone, lasciatemi volare" non l'ho ancora capita) ho l'impressione che il complesso funzioni molto meglio. Perché? Perché c'è una cazzo di trama! Iniziata, sviluppata e chiusa. 

Che Ricky Bobby faccia (o mi abbia fatto) ridere non lo metto in dubbio, ma la sensazione che presto sarà tutto nel dimenticatoio è molto forte.

Sì, certo, il padre che si rivende i biglietti della corsa è stata una gran bella cosa.







lunedì 3 gennaio 2011

The Warriors

I Guerrieri della Notte
Walter Hill, 1979
    Una gang di Coney Island si trova, nel cuore della notte, dall'altra parte di New York. Cercano di tornare nel loro territorio ma devono scampare da tutte le altre gang e dai poliziotti, i "berretti". Qualcuno li vuole vivi, qualcuno li vuole morti, per molti è indifferente.
    Estasi.

    L'atmosfera è in perfetta armonia con la trama: silenziosa e cruda, violenta, sembra quasi un film horror. Si alternano momenti di totale assenza di rumore, con soli giochi di sguardi sfrontati pronti ad accettare qualsiasi sfida, a sequenze dalla consistenza del fracasso: della metro, della strada, di una folla totalmente fuori controllo. Le parole, quando ci sono, sono sporche ed offensive tanto quanto, e forse anche più, della violenza fisica vera e propria, che sparge molto meno sangue.

   Il risultato è (anche) il ritratto di una realtà a sè stante, dove le regole di ogni altro mondo non trovano posto, dove non trova posto la paura, la debolezza, dove la fierezza di sè e della propria divisa sono al primo posto, prima ancora della vita. I Guerrieri sono forti, valorosi ed orgogliosi, non cedono a comportamenti che non si addicono ad un vero uomo. Ma sono anche leali e fedeli all'amicizia: non si lascia un compagno indietro, per quanto si possa rischiare. E nonostante l'aggressione di poliziotti armati di manganello, gang con tanto di mazze da baseball o armi di altro tipo, poco li fa tremare. L'unica cosa che si avvicina al fotterli è sempre una donna. E' proprio vero quel detto, tira più un.. no, non me lo ricordo.

   I personaggi sono davvero unici: folli, surreali, irrazionali, stronzi, sfacciati, irriverenti. Ognuno ha le sue piccole peculiarità che lo distinguono dagli altri: Swan è il saggio, il riflessivo, quello che, in fondo in fondo, vorrebbe fare qualcosa di più della sua vita; Rembrandt è l'artista, meno sfrontato degli altri ma molto leale; Ajax il presuntuoso che speri da subito faccia una brutta fine; Cowboy è quello col cappello da cowboy (!!) sciocco ed ottimista; e Luther, della band dei Rogues, è il folle, il mentalmente diturbato che vorresti vedere in ogni film. La scena in cui esorta i guerrieri a "giocare a fare la guerra" ha un non so che di estremamente esaltante.


 
   Non so voi, ma io ultimamente non ne vedo molti di film in grado di  far rizzare tutti i peli delle braccia e farti adorare quelle persone considerate i "rifiuti" della società. Sapete, quei film che ti coinvolgono e ti impressionano, e ti fanno pensare "ma esistono davvero cose del genere? Figo.".
   Io lo cercavo da un bel pezzo, e l'ho scovato nel '79. 


   





sabato 1 gennaio 2011

Scusate il dis-ordine.

Ed ecco quella che, grosso modo, sarebbe la mia classifica dei film usciti (in Italia) nel 2010.

1. Inception, Cristopher Nolan.
  Onestamente ho avuto ben pochi dubbi su quale sarebbe stato il film più bello del 2010 nella mia personale classifica, forse lo sapevo ancor prima di vederlo, il film in questione. 
Le aspettative erano tante, alimentate da quelle di tutta la rete, la paura che potesse non soddisfarle anche. Era difficile essere all'altezza di quanto richiesto, ma Nolan ci è riuscito alla grande. 
Perfetto sotto ogni angolazione, bello da togliere il fiato. Conciso: non si perde in spiegazioni noiose e ridondanti, non si dilunga con superflui dettagli. Ogni cosa è lì per un preciso motivo, e la cosa più bella è stata uscire dal cinema, a bocca aperta, increduli per quel dannatissimo scherzetto finale del regista, riflettendo sulla cura prestata ad ogni singola scena, ad ogni singola azione, la precisione con la quale si incastrano tutti i pezzi del puzzle. E poi vederlo di nuovo, solo per assicurarsi di avere il quadro completo e non essersi lasciati sfuggire nulla (sarebbe un peccato).
Al diavolo l'overthinking: la morale è a libera interpretazione.

2. The Social Network, David Fincher.

Mi viene da sorridere, se penso ai pregiudizi che ho letto su questo film prima che uscisse. Un film su facebook? Fincher è alla frutta.
Mi viene da sorridere perché alla fine è una delle pellicole uscite più gloriosamente da questo 2010.
Merito della regia, che in alcuni punti ha fatto rabbrividire tutti noi. Della sceneggiatura, che ci ha allietati con dialoghi finemente esilaranti e pungenti. E degli attori, giovani e bravi.
L'impresa non era certo facile: un film di 2 ore (e per me avrebbe potuto continuare ancora) sul social network che ha inebetito una generazione già non troppo sveglia (scusate, pregiudizi miei e poi, orsù, qui nessuno fa di tutta l'erba un fascio), fatto capolavoro di analisi sociologica conteporanea (anziché un film per sedicenni in piena crisi ormonale e trentenni poco calati nella realtà).
Bravo Fincher, bravo Sorkin, bravi tutti.

3. Scott Pilgrim vs the world, Edgar Wright.

Questo è il film che mi ha stregato per oltre una settimana dopo averlo visto. Questa la scena con la quale tappezzerei le pareti di casa mia.
Una delizia per la vista, l'udito e soprattutto per l'umore. 
Se manca un qualche messaggio profondo sul senso della vita, se mancano scene strappalacrime di quelle che rendono necessariamente bello un film, se manca la suspense, quello che non manca è un adorabile e spassoso umorismo demenziale capace di alleggerire lo spirito, e ditemi voi se è poco.
Una ventata d'aria fresca che in un paio d'ore ti fa dimenticare i problemi di una settimana.
Veloce, frizzante, colorato, riassume il fumetto senza perdere i passaggi essenziali e senza sovraccaricarti.
Da vedere e rivedere.
Chicken isn't vegan!?
4. La prima cosa bella, Paolo Virzì
 Quando è la tua patria (la stessa dei vari Natale in culo, poi) a dare i natali ad un capolavoro del genere è tutto più bello, tutto ha un sapore diverso. 
"La Prima Cosa Bella" è un capolavoro perché sa commuovere e sa far sorridere a livello istintivo e non cognitivo. Perché tratta argomenti che ti spezzano il cuore eppure alla fine, nonostante la morsa nel petto, non c'è spazio per l'amarezza, c'è piuttosto speranza. Speranza nel futuro, nelle persone, nei sentimenti. Nella vita.
 "La Prima Cosa Bella" è un capolavoro perché prende un argomento trito e ritrito, la malattia terminale, ed anziché trattarla nel presente e nel futuro lo fa analizzando il passato ed i suoi strascichi. E lo fa con una dolce leggerezza che non ti strazia ma ti commuove nel modo più bello immaginabile.
"La Prima Cosa Bella" è un capolavoro perché in una trama già intensa di suo riesce ad amalgamare altre questioni delicate: la dipendenza, che esprime a livello superficiale delle problematiche più intense; la felicità e l'amore, la ricerca di entrambi, la loro collisione, dover fare una scelta seppur difficile a costo di averli; ed infine il perdono, incondizionato, dettato dal cuore, dopo anni passati a colpevolizzare quella persona di tutti i propri problemi.
"La Prima Cosa Bella" è un capolavoro. Perché sì. Punto.


5. Away We Go, Sam Mendes.
Su "Away We Go" non avevo dubbi, sapevo che l'avrei adorato e sapevo che sarebbe stato un'opera romantica e leggera, ma non superficiale.
Quello che non sapevo è che mi sarei innamorata così irrazionalmente. A voler essere oggettivi non ha niente in più di molti film esclusi dalla Top, anzi, ma ehi al cuor non si comanda ed "Away We Go" ha parlato direttamente al mio cuore, l'ha colpito nei suoi punti deboli e ne ha fatto un suo succube.
Gli elementi sono pochi ma funzionano: è simpatico, la tematica è estremamente attuale, i due protagonisti sono adorabili, due "immaturi" ribelli avversi alle convenzioni sociali.
Ed un finale che lascia un velo di serenità ed un sorriso sul volto che diffilmente ti lascerà.

6. Toy Story 3, Lee Unkrich
 
Può un cartone animato per bambini essere divertente senza mai essere banale? Può essere tenero e ricordarci la nostra infanzia senza essere stucchevole e cadere nei classici cliché buonisti? Può? La Pixar sono anni che ci dimostra che sì: si può. 
Toy Story 3 non è che l'ennesima conferma, quindi non avrebbe dovuto esserci nessuna sorpresa. 
E invece no. Confesso che dopo Wall-E ed Up io continuo a sorprendermi, perché è incredibile come una pellicola possa risvegliare il bambino che c'è in noi creando una piccola perla, raccontando una favola in modo intelligente ed ironico. E questo è di estrema importanza per me, che sono una convinta sostenitrice della necessità di tenere sempre vivo il bambino che c'è in noi, provare emozioni e sorprenderci per le piccolezze per tenere lontani i nostri fantasmi. Ed i cartoni (specie della Pixar) aiutano un sacco.

7. An Education, Lone Scherfig.
 Questo è un film bello. E mai come in questo caso l'aggettivo bello assume tante sfaccettature. 
Bello non è solo un commento, è un aggettivo per descrivere ogni aspetto di questo film. E' bello da vedere, e la bellezza è l'oggetto ricercato per tutta la sua durata. Sono belli i protagonisti e la loro storia d'amore. Belle sono le loro serate ed i loro viaggi, belli i loro gusti. E l'arte, non dimentichiamoci dell'arte, che è una costante del film e che è la cosa più bella al mondo: l'arte è l'emblema della bellezza. E bella è Parigi. Quindi è un film bello, e siamo d'accordo, allora può non piacere un film bello? Io credo di no.
Ma questo è anche un film amaro, che ti dimostra con un'equazione elementare come non tutto ciò che si desidera può essere consumato, che la via più facile non sempre è percorribile (spesso non c'è una via facile). Spesso la passione ci porta a tradire chi ci ama e poi essere traditi da chi si ama, fare scelte e relative rinunce per effimere ricompense e ritrovarsi poi a mani vuote. 
Ti sbatte la verità, nuda e cruda, sotto il muso, e questo può far male.
Ma se possibile rende "An Education" ancora più bello.

8. Buried, Rodrigo Cortès
 A quanto pare quando hanno chiesto al regista come gli fosse venuta in mente lìidea di girare "Buried", lui ha risposto di aver pensato al modo per impiegare il budget più ridotto: una sola ambientazione, un solo attore. BOOM.
Ne è uscito fuori uno dei film più fighi degli ultimi anni. 
Tralasciamo la parte in cui spiego perché è incredibile come, senza l'uso di flashback, rimanga coerentemente ambientato nella bara e crei un'atmosfera claustrofobica, tesa, emozionante.
Ciò che rende "Buried" un grande film, e non solo un grande esperimento, è il suo essere politically incorrect, la sua irriverenza verso tutto e verso tutti. Verso i rapitori e verso coloro che si professano salvatori, i "buoni", e verso i datori di lavoro. E questa vena non poteva culminare in modo migliore di come immaginato da Cortès, nello sconforto più totale.


9. L'Uomo che Verrà, Giorgio Diritti.
10. The Ghost Writer, Roman Polanski
11. Porco Rosso, Hayao Miyazaki
12. A Single Man, Tom Ford
13. Fantastic Mr Fox, Wes Anderson
14. Shutter Island, Martin Scorsese
15. The Town, Ben Affleck
16. Des Hommes et des Dieux, Xavier Beauvois
17. About Elly, Asghar Farhadi
18. Avatar, James Cameron
19. Up in the Air, Jason Reitman
20. Somewhere, Sofia Coppola

Questi sono più o meno i film che sono certa rimarranno nel tempo del 2010. I primi 8 sono quelli che sento più miei, per i quali avevo più cose da dire.
Ci sono poi delle sottocategorie. Ad esempio le cocenti delusioni: 
Alice in Wonderland, Tim Burton. L'ho aspettato per anni, e quando dico anni lo dico in senso letterale, e mi ha fatto approssimativamente schifo.
Invictus, Clint Eastwood. Clint è una delle certezze, per me, nel cinema. Sapete cosa si prova nell'essere delusi da uno dei propri idoli? Io sì. E fa male.
Poi ci sono le cagate assolute: la decisione va all'unanimità a The Box, di Richard Kelly.
Per non parlare dei film dai quali mi aspettavo qualcosa, non necessariamente di sconvolgente, ma che alla fine mi hanno lasciato ben poco, molto meno di quanto mi aspettassi:
You Will Meet a Tall Dark Stranger, di Woody Allen.
Basilicata Coast to Coast, Rocco Pappaleo.
The Soloist, di Joe Wright.
Ed infine le commedie più carinose dell'anno:
Happy Family, di Gabriele Salvatores. 
Going the Distance, Nanette Burstein.

Tutto il resto è noia. O più probabilmente non l'ho (ancora) visto.