venerdì 27 maggio 2011

Brazil

Brazil
Terry Gilliam, 1985
Capita, alcune volte, che un film ti violenti, imponendosi quasi come una visione forzata, dando l'impressione che le pareti claustrofobicamente si restringano. Vorresti porre fine all'angoscia ma non puoi, perché in qualche modo questa merda funziona e non riesci a cambiare canale.
Così con Brazil, frutto del genio di Terry Gilliam ispirato dal romanzo di Orwell "1984": inquietante all'inverosimile, angosciante e onirico, dai toni cupi della black comedy, e con un messaggio impegnativo il cui senso compiuto si coglie solo a visione completa.

Dopo averci dormito su ho ripensato molto a questa pellicola, riconducendola passo dopo passo agli studi di diritto penale.
Una volta un uomo saggio mi ha detto di pensare al diritto penale come ad una coperta: più la tiri su, più i  piedi si scoprono. La testa rappresenta la sicurezza, l'ordine pubblico, mentre i piedi sono la libertà che più rimangono al freddo più risultano (metaforicamente, s'intende) compressi.
Come purtroppo la storia ci ha insegnato, non è del tutto inimmaginabile una società nella quale ogni comportamento viene imposto dall'alto, sia esso il pagamento dei tributi, sia la riparazione di un condizionatore, basta creare una nuova figura di reato e coercire la volontà ed annientare il libero arbitrio del singolo.
E gli studi hanno evidenziato come, se è vero che ad azione corrisponde un'adeguata reazione naturalmente consequenziale, in tal caso la risposta all'egemonia burocratica e dittatoriale è il caos: quando il cittadino non avverte la "giustizia" come tale nel suo valore intriseco, quando la pena non è commisurata alla lesione del bene protetto e soprattutto alla sua meritevolezza di essere protetto, viene a mancare il rispetto per le istituzioni, viene a mancare la molla che spinge il cittadino alla spontanea collaborazione con l'ordinamento ed anzi, si commettono i crimini più efferati.

Tutto ciò è mostrato in maniera didascalicamente confusionale e tetra da Gilliam, che riesce a trasmettere con l'ausilio di ogni mezzo audio-visivo ciò che a parole non è così immediato.
Viene dipinta una società futuristica, opprimente, dove ogni comportamento pare essere pre-modellato dal potere dittatore ma dove niente sembra essere percepito come immorale od ingiusto, dove di fronte ad innumerevoli attentati terroristici la gente è oramai insensibile.
Sam Lowry (Jonathan Pryce) insegue una fantomatica donna che ricorre ogni notte nei suoi sogni, infrangendo ogni tipo di regola gli si frapponesse, lottando con tutte le sue forze pur di raggiungerla, salvo poi perderla immediatamente dopo tanti sforzi. Un po' come se si stesse parlando della libertà.
Robert De Niro, ancora splendente, interpreta Tuttle, un pluriricercato che col suo senso di ribellione sembra l'unico collegamento con la realtà.

Stridente si sente in sottofondo la melodica Brazil, istintivamente ricollegata a scenari festosi e caraibici, ma in realtà un inno all'evasione.


martedì 17 maggio 2011

Source Code

Source Code
Duncan Jones, 2011
Se alla sua opera prima tutti gli occhi erano puntati su Duncan Jones per la risaputa provenienza familiare, questa volta lo erano di nuovo ed ancor di più per via della sorprendente riuscita dello stesso Moon, a suo modo un capolavoro nel genere: comprensibile anche se intricato, umano prima che fantascientifico.

Anche se meno ineccepibile, Source Code raggiunge gli stessi traguardi, anche perché strutturalmente molto, forse troppo, simile al predecessore. 
Meno ineccepibile: di fatti, l'intera visione mi è stata rovinata da un grossolano errore di logica proprio del funzionamento stesso del source code. Certo, in un film di fantascienza tutto è possibile perché, appunto, fantascienza, ma se ci si dimestica con tentativi di spiegazioni logiche allora queste debbono essere necessariamente coerenti non già con le leggi della fisica a noi note (altrimenti non sarebbe fantscienza), ma semplicemente con loro stesse. E questo manca in Source Code perché, anche se alla fine viene svelato un meccanismo diverso (che anche se più drastico è paradossalmente più accettabile in termini di logica), ciò che non mi convince è che qualcuno abbia anche solo potuto pensare che funzionasse diversamente: non è credibile e basta.

Ora, l'essersi ripreso in calcio d'angolo mi ha permesso di apprezzare la godibilità del film, che in questo aspetto si differenzia notevolmente dagli altri del genere. Infatti viene messo in risalto l'aspetto umano dei protagonisti, anche con piccole frasi, dette quasi per caso ma d'effetto, con piccoli gesti, o sguardi fugaci, e sempre più nel finale con grandi rinunce e ribellioni. Anche i personaggi di contorno sembrano avere un proprio ruolo, dei caratteri ben definiti che li distinguono da ogni altro, sia questo uno studente un po' impacciato, o un comico scontroso, o un innocente sospettato.

Ed in fondo Source Code non parla semplicemente di un soldato che con mezzi solo immaginabili ripercorre otto minuti già scritti nella storia, a guardare più da vicino parla dell'insotenibile pesantezza dell'essere, quella che Milan Kundera descriveva come l'insopportabile ripetersi di un evento nel tempo: ed in questa prospettiva appare chiara la scelta di Colter (Jake Gyllenhaal) e la sua richiesta a Goodwin (una Vera Farmiga perfetta in ogni espressione).
Ed oltre a ciò parla anche di come un uomo, un soldato ma pur sempre un uomo, assapora i suoi ultimi otto minuti di vita. Voi, cosa fareste se vi restassero solo otto minuti da vivere?

Inizia il countdown per il prossimo lavoro di Duncan Jones, oramai uno dei nomi più allettanti tra i registi emergenti, sperando non si ripeta ulteriormente nell'impostazione, mostrandoci l'imprescindibile carattere per un regista di talento della volubilità.

sabato 14 maggio 2011

Never Let Me Go

Never Let Me Go
Mark Romanek, 2010




Quanto fanno male i pregiudizi ad un film, qualsiasi film e qualsiasi tipo di pregiudizi. Io, ad esempio, credevo che Never Let Me Go parlasse di un amore che trascende i confini, che supera qualsiasi barriera. Credevo fosse la storia di tre amici d'infanzia che una volta adolescenti si scontravano in una sorta di triangolo amoroso. Credevo mi avrebbe commossa e fatto piangere.
Non è stato niente di tutto ciò, e la visione mi ha profondamente delusa.
Poi, all'improvviso, l'illuminazione. All'improvviso ho capito che parlava di tutt'altro.

Never Let Me Go è la descrizione di cos'è l'uomo messo davanti alla morte mettendo in evidenza le paure più egoiste e l'ipocrisia con la quale cerca di camuffare questa sporca natura, lasciandosi un margine alla fine per pulirsi la coscienza. Più ci penso e più mi sembra che ogni singolo pezzo del puzzle di Never Let Me Go si incastri alla perfezione in questa visione: Ruth tradisce la sua migliore amica senza pensarci due volte nel disperato tentativo di aggrapparsi alla vita, una vita affianco a qualcuno per non essere lasciata sola; Tommy pare dimenticarsi della ragazza che l'ha amato da subito e non gli ha mai voltato le spalle, salvo poi ricordarsene ad anni di disanza, apparentemente solo per avere un futuro; la società, dal canto suo, usa degli esseri umani come cavie appunto per avere un'àncora di salvezza.
L'unica persona realmente umana in tutto ciò è Kathy, la protagonista interpretata dalla dolcissima e talentuosa Carey Mulligan. Le sue azioni sono tutte sincere, spontanee, mosse dall'amore. Anche quando si allontana per diventare assistente e, di fatto, ritardare il suo destino per diversi anni, lei lo fa per non soffrire a causa dell'amore. Quando poi perdona la sua migliore amica ed il ragazzo che ha amato, lo fa per amore, amore sincero, non per doppi fini.. Dimostrando che un'anima ce l'ha.

E quando ho capito questo non ho provato commozione, ma un dolore quasi tangibile. Una sorta di sconforto ed un retrogusto amaro. La tipica sensazione che resta quando ci si accorge di una realtà che non si era messa bene a fuoco.

Ora, questo è il mio tentativo di salvere il salvabile, perché se non fosse per questo tranne la bella fotografia , qualche scena onestamente toccante o semplicemente simpatica (come la prima ordinazione al bar dei tre ragazzi), non mi sarebbe rimasto gran ché.
Premettendo di non aver letto il libro, posso dire che se il messaggio fosse stato qualsiasi altra cosa, in particolare tematiche di amore sincero e profondo, allora lo script avrebbe miseramente fallito, lasciandomi solo un senso di vuoto senza toccarmi minimamente.

lunedì 2 maggio 2011

The Resident

The Resident
Antti J. Jokinen, 2010

Diciamo che se avessi capito prima che quello lì non è Javier Bardem bensì la sua copia spiccicata Jeffrey Dean Morgan, ed avessi saputo che il regista ha un passato come regista di video musicali per cantanti del calibro di Celine Dion, Shania Twain ed i Westlife, bé, forse mi sarei fatta i fatti miei.  Pregiudizi. Sbagliati, tra l'altro. Non che il film mi abbia fatto impazzire, mi ha deusa ma per motivi molto diversi ed in un modo inaspettatto.

Innanziatutto l'idea di fondo ci sta tutta: Juliet (Hilary Swank) bella, affermata e single, si trasferisce in un appartamento nuovo, e come in ogni appartamento vuoto ogni rumore sembra suggerire la presenza di un serial killer appostato dietro le tende. I segnali di una presenza estranea aumentano Juliet inizia a prendere provvedimenti e quello che scopre è, a mio avviso, una verità agghiacciante. Niente di paranormale, anzi, qualcosa che potrebbe accadere anche con una certa facilità.

La prima parte del film si atteggia a thriller dalle tonalità horror. La particolarità sta nello spiegare gli avvenimenti con una storia parallela all'improvviso, giustificando credibilmente anche cose ai limiti dell'immaginazione, e facendo notare delle piccole finezze registiche.
A questo punto, però, le idee sono finite. La psicopatia viene dipinta in modo imbarazzante, si trovano degli espedienti ridicoli per far andare le cose in un certo modo, la sequenza finale è scialba. Hilary Swank a tratti si rivela intensa ed immedesimata, in altri è solo fredda, completamente assente.

Un bel thriller, anzi: un bel passatempo. Niente da annoverare tra i pezzi grossi del cinema ma, in fondo, una visione piacevole  quanto meno coinvolgente..
Uscita nelle sale italiane? Boh.