domenica 30 ottobre 2011

Le conseguenze dell'amore.

Le conseguenze dell'amore.
Paolo Sorrentino, 2004.

   Ultimamente mi sono ritrovata a pensare a che fine abbia fatto il cinema italiano, rilegato alla dimensione neorealista ed ancora profondamente ancorato alla commedia. Commedia, oggi, volgare o banale. E seppure ogni tanto salta fuori qualche buon lavoro, apprezzato anche fuori nazione, è uno strascico degli anni dello splendore. Basta pensare all'unico film italiano che abbia vinto un Oscar come miglior film straniero negli ultimi quasi 20 anni (La Vita è Bella) a capire che non c'è stata progressione: non siamo più al passo coi tempi.

   Mi hanno detto che se c'è un nome che può salvere la reputazione del cinema italiano, beh, quel nome è Paolo Sorrentino. Basta vedere i primi minuti di Le Conseguenze dell'Amore per rendersene subito conto: dove altro troviamo, nel nostro Paese, una tale cura per i dettagli? Avete notato la perfetta armonia, studiata fino al minimo particolare, tra la plumbea fotografia e la claustrofobica colonna sonora (tanto per fare un paio di nomi, Lali Puna e Mogwai)? E l'ammaliante gioco di specchi della regia? E l'essenzialità dei dialoghi, preceduti da interminabili silenzi o profondi monologhi, sintetici seppur esaustivi?? E Toni Servillo? Quanto è bravo Toni Servillo?

   Geniale ed originale, Sorrentino intitola in modo volutamente fuorviante la storia di uomo che si ritrova coinvolto in qualcosa di più grande di lui, rinchiuso in un albergo contro la sua volontà, incatenato ad una vita che non era la sua. Eppure ad un certo punto Titta Di Girolamo (è questo il suo nome) annota su un block notes, quasi dovesse ricordarsi di fare una chiamata il giorno dopo, "non sottovalutare le conseguenze dell'amore": frase profetica, che segnerà la conclusione e si rivelerà filo conduttore di tutta l'evoluzione narrativa.

   Lungo il percorso trova spazio anche l'inventiva registica: si pensi al montaggio durante il colloquio con il collegio, un puzzle temporale. Ma soprattutto, e ci tengo ad evidenziarlo, un'originalità nell'assemblaggio dei singoli elementi: la sequenza in automobile con in sottofondo, violentemente e stridentemente, Ornella Vanoni con "Rossetto e Cioccolato", bellissima, stupenda! In tutto ciò ho ritrovato qualcosa di grande, qualcosa che davvero torna a far sperare per il futuro. Un'opera grande ed impegnata, moderna, ammirevole. 

   E non fa niente se poi il confronto con il vero cinema d'oltre oceano di Sorrentino non si sia poi rivelato all'altezza delle aspettative, This Must Be The Place non è stato proprio un capolavoro, ma questa è un'altra storia. L'importante è aver dimostrato che, se vogliamo, possiamo fare qualcosa di importante anche noi, e lo facciamo anche bene. Bravo Sorrentino, bravo.

  

Super.

Super.
James Gunn, 2010.

   Perché non accade mai che una persona qualunque indossi un costume improvvisato e dopo aver trovato un nome d'effetto inizi a lottare contro il crimine? Perché nessuno ha mai pensato di fare giustizia da sè con armi inventate e costruite nel proprio garage?? Semplice, perché è illegale. Eppure nel cinema sono molti a chiederselo, ultimamente. Ellen Page compresa. Ma la cosa ci sta più che bene: di pellicole su millantanti super eroi, goffi e ridicoli, ne sono uscite diverse, tanto che viene naturale chiedersi quanto si potrà innovare rispetto alla precedente e quanto questa moda smetterà di fruttare a sufficienza. Ma al momento ognuna di esse è riuscita a ritagliarsi uno spazio suo, rimanendo unica nonostante enormi punti in comune.

   In Super il protagonista, Frank D'Arbo (interpretato da Rainn Wilson) sostiene di aver vissuto solamente due momenti perfetti nella sua vita: quello in cui ha sposato la moglie Sarah (Liv Tyler), ex tossico dipendente che sta ricadendo nel mondo della droga e della mala vita, e quello in cui ha fermato un lado in fuga. Lasciato da Sarah cerca di compensare il vuoto concentrandosi sul secondo episodio: dopo una delle sue tante visioni deciderà infatti di diventare la Saetta Purpurea e di lottare il crimine con una chiave inglese. Ad affiancarlo interverrà saettina, Libby (Ellen Page), commessa nel negozio di fumetti dove Frank ha preso ispirazione.

   Quel che rende Super unico nel suo genere è il non essere un dolce compromesso tra azione ed ironia, tra commedia e splatter, come spesso accade. É l'essere l'uno e l'altro estremo, insieme. Super è totalmente idiota, totalmente violento e splatter, totalmente drammatico. Non lasciatevi ingannare dal trailer italiano il quale è riuscito a mostrare gli unici due pezzi con le scritte colorate à la indie ed ha giustamente fatto notare che i protagonisti sono gli stessi di Juno, molto rilevante. Super è un film per chi è forte di stomaco, per chi apprezza l'ironia più scorretta, per tutti quelli che non si imbarazzano facilmente.

   L'altra caratteristica consiste nella totale pazzia dei due personaggi protagonisti. Frank è seguito da visioni sin da bambino: lo stesso progetto di Saetta Purpurea inizia dopo essere stato toccato dal dito di Dio. Anni di umiliazioni lo hanno portato ad accumulare parecchio rancore, tanto da non riuscire a distinguere con chiarezza il bene dal male. Libby è invece una sociopatica, pazza in modo certamente più inquietante. Uno dei personaggi più belli che si possa trovare sul grande schermo: folle, scorretto, violento, volgare ed imbarazzante. Non a caso le è stata riservata una uscita di scena indelebile.

   Mirevole l'immaginazione di Gunn, nel districare la trama con colpi improvvisi ed inaspettati e nel far rivelare la pazzia dei protagonisti in modo graduale e sempre più sconvolgente. Soprattutto, nell'inventarsi una escalation finale commovente ed emozionante, risaltata dalla crudezza delle immagini di contorno: un finale difficile da dimenticare che chiude in modo perfetto questo film irriverentemente originale.

giovedì 27 ottobre 2011

Drive.

Drive.
Nicolas Winding Refn, 2011.

 

   In Drive i peronaggi principali sono due. C'è questo guidatore, the driver, che sembra vivere nella guida. E' freddo, lucido, uno spietato vendicatore. E' il numero uno nel suo campo. Poi c'è un uomo, un uomo al quale non viene dato nome rimanendo per lo più anonimo. Lui invece è premuroso, dal sorriso impacciato e sempre molto discreto. E' innamorato di una donna e del figlio di lei, e farebbe di tutto per proteggerli. Ora si da il caso che questi due personaggi siano in realtà uno solo, e che sia interpretato da Ryan Gosling, il quale ha avuto più occasioni per dimostrare che il suo talento vada ben al di la del suo incontestabile fascino.

   Certo non spicca per originalità, Drive: dalla trama, che vede il disperato tentativo di uscire dal mondo della criminalità pur ritrovandosene sempre coinvolti, trattato da innumerevoli film tra i quali il più recente è forse London Boulevard; l'amore per una donna, e rinunciare a quello che si cercava di costruire solo per lei; la vendetta. Nonché per il personaggio protagonista, questo uomo dalla doppia anima.

   Ciò nonostante ha conquistato il cuore di molti: sarà stata l'ineccepibile interpretazione dei protagonisti; sarà stata la mano ferma e decisa di Refn che gli è valsa il premio regia al Festival di Cannes e che ci ha regalato quella perfetta sequenza nell'ascensore; saranno stati i piccoli dettagli che hanno scandito l'evolversi degli eventi e la descrizione dei personaggi (prendete ad esempio la sequenza iniziale ed il dialogo al cellulare del guidatore, che mostra già chiaramente il suo carattere). O forse sarà semplicemente che il cinema è arte, e questa si manifesta in ogni occasione se c'è anima e se c'è bravura: non importano i pregiudizi, non importa la ripetitività, perché dove c'è arte non c'è mai banalità.

venerdì 2 settembre 2011

As good as it gets

As good as it gets.
James L. Brooks, 1997.

    Melvin Udall (Jack Nicholson) è un cinico, misantropo, razzista, omofobo schizofrenico, paradossalmente scrittore di romanzi sentimentali che nell'arco di pochi giorni si affeziona ad un cane, diventa amico di un pittore gay e si innamora perdutamente di una cameriera. Con il già noto tocco del buon autore di sitcom  (basta vedere, e ancor di più, Voglia di tenerezza) James L. Brooks riesce a raccontare storie lunghe secoli in poco più di due ore, che sembrano una lunga ventata di aria fresca grazie allo humor leggero e frizzante di cui può orgogliosamente vantarsi il produttore del cartone animato più divertente mai creato, e non c'è bisogno che lo nomini.

    Se c'è un pregio di cui il regista tanto nel suo primo successo quanto nel suo grande atteso ritorno può vantarsi è quello di disegnare con mano ferma, decisa ed ispirata i suoi personaggi, forti ed unici, ciascuno con una storia importante da raccontare. Seppur qualcosa è cambiato, i protagonisti restano fedeli a sè stessi nell'evolversi della storia, seguendo un iter psicologico coerente e credibile. Sembra uno studioso delle scienze sociali, quasi uno psicologo, James Brooks, per quanto realistiche sono le azioni delle sue creature cinematografiche e per quanto appropriati sono i loro pensieri ed i loro dialoghi in ogni circostanza, e per quanto vicine a ciascuno di noi sono le loro emozioni.

    Certo non si può negare l'importanza del cast, eccelso in ogni sfumatura ed in ogni occasione. Una fantastica Helen Hunt interpreta una madre impegnata, di quelle che uscendo la mattina di casa dimenticano di specchiarsi, che uscendo con un uomo non si preoccupano di un po' di vomito sul vestito, ma che soprattutto non hanno più confidenza con quella sensazione di leggerezza che si prova quando non hai il peso di una vita sulle tue sole spalle; perfetta in questo ruolo. Fantastico come sempre Jack Nicholson che nel ruolo di psicopatico rende il meglio senza perdere l'irresistibile fascino che caratterizza il suo volto anche se oramai segnato dalle rughe. Non so voi, ma io mi sarei subito innamorata di un Garret o di Melvin così: grande connubio Brooks/Nicholson, che non a caso è valso due oscar all'attore.

    Una romantica commedia, anche profonda e commovente, dai toni leggeri e colorati, di facile visione che non può non addolcire almeno un po' l'animo dello spettatore. 

Milvin: [...] Diciamo che io ho... cos'è?... un disturbo?... Il mio dottore, uno psicoanalista dal quale andavo sempre, dice che nel 50-60% dei casi una pillola può aiutare molto. Io odio le pillole, roba molto pericolosa le pillole, odio. Bada bene uso la parola "odio" apposta, quando parlo di pillole. Odio! Il mio complimento è che quella sera che sei venuta da me e mi hai detto che non avresti mai... beh, insomma, tu c'eri quella sera e lo sai, quello che hai detto. Beh, il mio complimento per te è che... la mattina dopo, ho cominciato a prendere le pillole.
Carol: ...non capisco come possa essere un complimento per me.
Melvin: ...mi fai venire voglia di essere un uomo migliore.
Carol: ...questo è forse il più bel complimento della mia vita!

giovedì 1 settembre 2011

Le fabuleux destin d'Amélie Poulain.

Le fabuleux destin d'Amélie Poulain
Jean -Pierre Jeunet, 2001.
    
    Che meraviglia il mondo dei bambini: candido e fantasioso, incantevole e capace di trasformare la più amara delle atrocità in una favola. Merito della fantasia che trasforma gli occhi in delle lenti dai colori dell'arcobaleno e dell'intimo rapporto che ogni bambino ha con il proprio io, ancora scevro delle influenze delle pressioni sociali. Difficile, quasi impossibile mantenere questo rapporto col proprio fanciullo interiore col passare degli anni, altrettanto lo è trasporlo sullo schermo.

    Favoloso per davvero il mondo di Amélie, o meglio il mondo creato da Jeunet, lezione di vita per ogni adulto dei tempi moderni. Senza compromessi mostra quanto poco possa bastare per aprire gli occhi alle persone e far vedere loro il bello del quotidiano. Anche e soprattutto grazie alla fantasia che  può sfociare in vera e propria menzogna: amare in base ad una piccola bugia è meglio che restare soli; credere di essere stati amati dopo un abile sotterfugio può mettere a tacere anni di tormenti; riprendere a vivere dopo che anche il tuo nano da giardino ha deciso di visitare il mondo è meglio che restare a casa a rimpiangere gli anni che furono. È il mondo della fantasia contro la realtà, il mondo visto e guardato col cuore contro quello visto con gli occhi. In fondo a cosa serve la fantasia se non a rendere più sopportabile il mondo reale?

    I personaggi sono disegnati con loquace essenzialità: piccoli dettagli per lo più insignificanti che possono svelare tutto ciò che serve con un po' di immaginazione. Incantevoli i protagonisti, come le loro storie. Ammalianti fotografia e colonna sonora. E si potrebbe analizzare minuziosamente ogni dettaglio, ma si sminuirebbe la perfezione del gioco di alchimia di così rara riuscita.

    Una favola moderna da guardare con gli occhi del sognatore, quelli che abbiamo sempre chiusi accecati dal cinismo odierno. Romantico e divertente, a tratti malinconico, è molto più che un film qualsiasi: una guida di sopravvivenza per chi nel frastuono del 21imo secolo cerca ancora disperatamente di salvare la propria innocenza e la propria genuinità.

domenica 28 agosto 2011

London Boulevard

London Boulevard
William Monahan, 2010
    Ci si poteva aspettare molto dal primo lavoro come regista e sceneggiatore di colui il quale ha portato con secoli di ritardo Martin Scorsese all'oscar. Si poteva, ma anche no: io ad esempio non ho mai sopravvalutato troppo il lavoro ed il merito di Monahan per The Departed, tenendo bene a mente che la sceneggiatura altro non è che un adattamento di Infernal Affairs, gangster movie di Hong Kong, che gli spianava il campo.
    London Boulevard mostrava le carte per essere un thriller ottimo, stimolando la curiosità dello spettatore per la mano del citato Monahan, stuzzicando gli ormoni di ambo i sessi grazie ai due protagonisti Colin Farrell e Keira Knightley, presentandosi con un trailer che astutamente nasconde le falle della sceneggiatura.
    In fondo sarebbe bastato poco a far quanto meno prestare un po' di attenzione alla pellicola, ma il risultato è stato alquanto fallimentare.

    Mitchell appena uscito di prigione cerca di trovare un lavoro onesto, proteggendo una star del cinema che a seguito di un dramma personale decide di abbandonare il mondo dello spettacolo ed è per questo ossessionata dai paparazzi. Tradire la propria natura criminale, ancorata al mondo esterno ma soprattutto a quello interno, non è mai facile ed uscire dai giri della mala vita richiede soluzioni drastiche.
    Il difetto più grande di London Boulevard è quello di non riuscire a sviluppare a fondo nessuna delle intense tematiche presenti nelle sceneggiatura, soprattutto quelle inerenti al protagonista (Colin Farrell) che non sa per quali dei suoi infiniti turbamenti esistenziali corrucciare la fronte, circondato da drammi peronali, familiari e sentimentali di ogni tipo. La co-protagonista, invece, pare appena accennata ed il loro inevitabile intreccio amoroso viene disegnato svogliatamente. Ogni personaggio sembra essere inserito per fare brodo (la sorella di Mitchell con problemi di alcolismo soprattutto, considerando il modo in cui entra ed esce di scena passando per lo più inosservata) ma quel che è peggio è come i protagonisti sembrino una comoda caricatura fatta con mano pesante di un duro e di un star del cinema, come solo in un film di serie C.
    Discontinuità narrativa evidenziata da un montaggio farraginoso e nervoso.

    Positivi i minuti finali, nei quali viene sfoggiata una originale e  fresca vena satirica eliminando l'eccesso di serietà con la quale il film è preso sin dall'inizio, terminando lo scontro principale dei due antogonisti in modo leggero e quindi contrastante col resto del film.
    Escalation terminante in un momento infinito di amarezza e riflessione, l'unico veramente profondo degli ultimi 100 minuti, dal quale si può trovare spunto per digressioni  filosofiche sul libero arbitrio individuale, sulla posizione inerme dell'uomo di fronte all'imposizione della massa, della società, del proprio passato e del proprio destino, anche se la più grande amarezza è dovuta dal pensiero di quanto avrebbe potuto essere bello questo film, ed invece no.

venerdì 3 giugno 2011

Terms of Endearment

Terms of Endearment
James L. Brooks, 1983
Voglia di tenerezza, la senti per davvero guardando Emma crescere, in costante conflitto con la madre, sposarsi, diventare lei madre, sopportare i dolori della vita; e Aurora, con le sue fragilità, la costante ricerca dell'appoggio nell'unica persona che sarà sempre con lei, la figlia, il suo senso del possesso e la necessità di avere tutto sotto controllo; e Garret, un adorabilmente sfacciato Jack Nicholson, astronauta sciupafemmine nel disperato tentativo di nascondere il suo lato umano. 

Questo dramma, che crede di essere una commedia, sa come rendere partecipe lo spettatore, accompagnandolo passo passo lungo mezzo secolo di vita di queste due donne, mostrando poco per volta, ma sempre quel che basta per comprenderle ed immedesimarsi: la fobia della madre sin da quando la figlia era in fasce, il suo bisogno di cure ed attenzioni dalla morte del marito; la genuinità di Emma, sempre più bella e forte.

Dialoghi calzanti, commoventi, più che capaci di coinvolgerti nel turbinio di emozioni in gioco: come dimenticare l'ultimo discorso di Emma ai figli? O la confessione di Aurora sui propri sentimenti resa alla figlia? Spesso bastano poche parole combinate nel modo giusto per far dare forma ai sentimenti più veri perché, non dimentichiamocelo, le parole sono importanti.
Ogni scelta loro è come se fosse tua, ogni loro sofferenza è un po' la tua.  Sbalzi temporali repentini e situazioni ilari alleggeriscono un racconto quanto più minuzioso, quanto più carico possibile.
132 minuti per raccontare una vita, molto più di quanto ci si possa immaginare. Cose che solo una mano capace poteva coordinare ed un cast eccellente interpretare, non a caso valse 5 (e quali!) premi oscar: miglior film,  miglior regia, miglior sceneggiatura non originale, miglior attrice protagonista (Shirley McLaine) ed attore  non protagonista (Jack Nicholson).

132 minuti per capire che non importa l'età, o da quanti anni non si fa più l'amore; non importa quanto si è sofferto, quante volte si è strati traditi, quante volte si è stati costretti a perdonare; non importa quanti anni di matrimonio, quanti figli, quanti problemi si hanno; non importa che le paure ti bloccano, ed il tempo passa, e la vita di sfugge via; che tu sia casilinga o astronauta, non importa: si ha sempre voglia di tenerezza.


Aurora: "Di un po', ti provoca qualche reazione sentirmi dire che ti amo?
Garret: "Ed io che credevo di essermela scampata.."
Aurora: "Bé, ora sei in trappola, quindi tanto vale affrontarlo."
Garret: "Non so che altro dire se non la mia frase di circostanza."
Aurora: "E cioé?"
Garret: "Ti amo anch'io, piccola."