lunedì 31 gennaio 2011

The Green Hornet

The Green Hornet
Michel Gondry, 2011
Michel Gondry è qualcosa come uno dei miei, toh, 5 registi preferiti, il regista al quale affiderei l'adattamento cinematografico di un romanzo del mio autore preferito (David Grossman), per intenderci (Eternal Sunshine of the Spotless Mind il mio film preferito di tutti i tempi, tutti). Amo la cura per i dettagli e come dipinge i suoi personaggi evidenziandone pregi e difetti, e come narra la storia non necessariamente con eventi di particolare rilevanza, ma con le piccole cose quotidiane che sono più vicine allo spettatore. Mi esalta la regia surreale.
E poi, adoro la piega che molti film su supereroi o pretesi tali ha preso da un po' di tempo a questa parte: degli action movie ironici, sì, ma non risibili, leggeri ma non necessariamente svogliati e superficiali. Come ad esempio Iron Man (il primo, non l'ultimo che fa un po' schifo) e soprattutto Kick-Ass.

The Green Hornet pensavo sarebbe stata una scommessa rischiosa, ma dall'alto potenziale per diventare qualcosa di speciale, mai vista prima. Mi ero illusa che sarebbe riuscito ad amalgamare perfettamente questi due miei amati generi così discordanti senza risultare forzato.
A meno di 24 ore dalla visione però sento ancora l'amaro in bocca.

In una sceneggiatura generalmente banale, dall'inizio lento e melenso, piena di personaggi già visti (in film, tra l'altro, di non ottima qualità) si salvano solo qualche scambio di battute ed un paio di gag, e qualche dettaglio registico. Prendiamo la sequenza di Kato che prepara il cappucino, che accenna ad un personaggio che diventerà poi il vero eroe senza neanche riprenderlo in faccia. Oppure il momento in cui Britt Reid mette a fuoco tutti i pezzi del puzzle (data la debolezza della sceneggiatura mi vergogno un po' a chiamarlo così..) e vede lo scenario attorno annerirsi (come accadde a Joel in Eternal Sunshine), e poi ricostruisce tutti i passaggi a mo' di fumetto, sintetico ed efficace. Ecco, per me questi sono piccoli dettagli che se tenuti per tutta la durata del film lo avrebbero reso qualcosa di più che un godibile intrattenimento fine a se stesso. 
Solo che Gondry forza la sua natura, e nel tentativo di avvicinarsi più ai canoni standard dell'action movie mette in scena cose come la focalizzazione degli obiettivi prima di passare all'azione di Kato, e poi anche di The Green Hornet, toccando il fondo e risalendo subito dopo solo per quella bellissima caduta. Insomma, forse se Gondry fosse rimasto fedele allo stile registico che più gli si addice il risultato finale sarebbe stato più fluido, si sarebbe quanto meno distinto. 
Ed invece no. Alla fine abbiamo solo un film molto godibile, e niente più.

Per concludere diamo un'occhiatina al Paese in cui viviamo.
Il pubblico dal canto suo va al cinema convinto di andare a vedere ciò che si è preparato a vedere dal trailer, che facevano sembrare il film non ironico, bensì comico. Ed ecco che basta una battuta sciocca a far scoppiare fastidiose risate in tutto il cinema. Per non parlare di quando Seth Rogen ha detto "paaaaallleeeeee". Il panico.
I traduttori, dal canto loro, hanno fatto molto peggio. "Sì, si chiamerà Il Calabrone Verde. Però d'ora in poi lo chiameremo in inglese, perché fa più figo". No, dico. Seriously?! (lo dico in inglese perché fa più figo)
Per l'amor del cielo, mi sono sentita umiliata. Sembrava una scena tipo dei Griffin dove prendono per il culo qualcuno con esagerazioni oltre l'inverosimile, ma noi lo facciamo seriamente! 
No, ma che dico, neanche il programma scientifico riadattato dai mangiapanocchie degli stessi Griffin aveva fatto un doppiaggio tanto stronzo.
Ma vaffanculo.

sabato 29 gennaio 2011

True Grit

True Grit
Joel and Ethan Coen, 2010
"People do not give it credence that a young girl could leave
home and go off in the wintertime to avenge her father’s
blood, but it did happen."


Questo è l'incipit di True Grit, l'ultima opera dei fratelli Coen, che racconta la trama molto meglio di quanto potessi fare io. E così salto una parte che mi sta tanto antipatica.

Innanzitutto questo è il film col quale il Drugo si ricongiunge ai Coen, ed allora proprio non si può aspettare: non appena puoi lo vedi. E soprattutto non aspetti l'uscita al cinema in Italia, perché doppiato no, meglio di no. Come si fa a doppiare la voce di Jeff Bridges? Inconcepibile.
 E poi, come accennato, è un film dei Coen. E lo sappiamo tutti, il film peggiore dei Coen è quantomeno godibile. True Grit sembrava (dalle locandine, dal trailer, dalla trama, da tutte le premesse) sembrava, ed effettivamente E', un gran bel film.

I registi dipingono uno scenario fedele all'originale, con personaggi caratterizzanti,  evidenziando la mentalità del posto (e del tempo), l'ignoranza e la squilibrata concezione della giustizia. Allo stesso tempo rendono loro il film, grazie soprattutto ai dialoghi, come sempre brillanti ed ironici. Il risultato finale è pulito, scorrevole. La fotografia e la regia smussano gli angoli ruvidi propri dei western, trasportati in questo remake dall'aspetto rude dei personaggi, dalle sequenze cruente, dall'alcolismo, e dalla voce roca e graffiante di Jeff Bridges. I dialoghi, invece, danno colore: basti pensare alle negoziazioni della bambina. Un connubio perfetto.
Infine: impossibile non elogiare i protagonisti, soprattutto Jeff Bridges che, vabbé, non ha più bisogno di darci conferme, e la giovane, giovanissima Hailee Steinfeld. 14 anni. Cristo.


Rinnovando il consiglio di vederlo in lingua originale, sappiate che in Italia l'uscita è prevista per il 18 febbraio. Molti candidati all'oscar escono in questo periodo in Italia. Che coincidenza.



martedì 18 gennaio 2011

Step Brothers

Step Brothers
Adam McKay, 2008.


Due bamboccioni (Will Ferrell e John Reilly) a quarant'anni vivono ancora rispettivamente con la madre ed il padre: non lavorano, non aiutano in casa, hanno gli stessi hobby di un adolescente in piena crisi ormonale e si fanno pestare dai bambini delle elementari. I rispettivi genitori si conoscono, si innamorano e decidono di andare a convivere insieme. Ovviamente se un figlio quarantenne è difficile da sopportare in casa figuriamoci due.

Se Talladega Nights riesce a strapparti qualche risata, o quanto meno a scivolarti addosso senza grossi traumi, con Step Brothers Adam McKay fa molto di più, irritandoti come pochi sanno fare.
Procede in modo ruvido, la pellicola fa attrito con l'intelligenza dello spettatore.
Le gag sono per lo più scontate, idiote, fanno leva sull'uso smodato di parolacce e riferimenti al sesso ed agli organi genitali. I personaggi sono fastidiosi ed il contesto è sempre molto imbarazzante. Come se non bastasse la storia è piena zeppa di moralismi e di comportamenti buonisti, dove anche i più stronzi alla fine diventano buoni e c'è un lieto fine per ogni, singola, cosa, mandando all'aria quel po' di dignità che era rimasta.

Insomma, un bel film di merda che ci regala un sacco di momenti di imbarazzo misto a fastidio, ed anche un po' di ribrezzo. Un film che non ha assolutamente niente per cui valga pena essere visto, se non Will Ferrel che canta “Con te partirò” in spagnolo che, non so perché, mi mette tanta gioia.

lunedì 17 gennaio 2011

Talladega Nights

Talladega Nights: the Ballad of Ricky Bobby
Adam McKey, 2006.

Tanto per chiarire le cose sin dall'inizio Ricky Bobby non è affatto la storia di un uomo che sapeva contare fino ad uno. E sì, sarebbe piaciuto anche a me, ma sono stata tratta in inganno anch'io dai titolisti italiani.
Detto ciò mi preme chiarire un secondo punto: ci sono due tipi di demenzialità accettabili nel cinema, secondo il mio modesto parere. Uno è la demenzialità geniale, quella dei film di Edgar Wright, per intenderci. L'altro è quella talmente idiota da fare il giro completo del buon senso e tornare al punto uno (la demenza geniale), come Zoolander, per esempio. Tutto il resto è spazzatura. Al massimo si salveranno un paio di punti ma ho seri dubbi che il gioco valga la candela.
L'arduo sta nel fatto che tra queste sfaccettature c'è una linea di confine molto, molto sottile.
A quanto pare Adam McKey cerca la strada più scontata e si adagia su vecchi trucchetti: innanzitutto l'appoggio del solito Will Ferrell (il non più sinonimo di garanzia Will Ferrell); il personaggio principale stupido, egocentrico ed immaturo; il suo amico altrettanto scemo col quale ha un perverso rapporto che sfiora ed a volte oltrepassa l'omosessualità. E poi tanti altri punti fermi del cinema demenziale: scene portate al paradosso, cinismo, totale mancanza di riverenza per la decenza altrui.

Ma bastano tutte queste cose a soddisfare l'arduo compito di rendere un film di puro non sense un film degno d'essere chiamato tale? Questa retorica domanda dovrebbe far capire che a me, Ricky Bobby, non è piaciuto mica sto granché.

Il problema sta tutto qui: amalgare gli elementi con un po' di razionalità. Se ci si limita ad infilare delle scene risibili qua e la senza creare un filo conduttore allora la cosa non sta in piedi, si rischia di far addormentare lo spettatore prima di metà film. E non riesco a non paragonarlo a The Other Guys - I Poliziotti di Riserva, opera ultima di Adam McKey e Will Ferrell non (ancora, spero) uscita nel nostro amatissimo Paese. Anche qui gli elementi sono, mutatis mutandis, gli stessi. E nonostante qualche uscita fuori luogo ("sono un pavone, lasciatemi volare" non l'ho ancora capita) ho l'impressione che il complesso funzioni molto meglio. Perché? Perché c'è una cazzo di trama! Iniziata, sviluppata e chiusa. 

Che Ricky Bobby faccia (o mi abbia fatto) ridere non lo metto in dubbio, ma la sensazione che presto sarà tutto nel dimenticatoio è molto forte.

Sì, certo, il padre che si rivende i biglietti della corsa è stata una gran bella cosa.







lunedì 3 gennaio 2011

The Warriors

I Guerrieri della Notte
Walter Hill, 1979
    Una gang di Coney Island si trova, nel cuore della notte, dall'altra parte di New York. Cercano di tornare nel loro territorio ma devono scampare da tutte le altre gang e dai poliziotti, i "berretti". Qualcuno li vuole vivi, qualcuno li vuole morti, per molti è indifferente.
    Estasi.

    L'atmosfera è in perfetta armonia con la trama: silenziosa e cruda, violenta, sembra quasi un film horror. Si alternano momenti di totale assenza di rumore, con soli giochi di sguardi sfrontati pronti ad accettare qualsiasi sfida, a sequenze dalla consistenza del fracasso: della metro, della strada, di una folla totalmente fuori controllo. Le parole, quando ci sono, sono sporche ed offensive tanto quanto, e forse anche più, della violenza fisica vera e propria, che sparge molto meno sangue.

   Il risultato è (anche) il ritratto di una realtà a sè stante, dove le regole di ogni altro mondo non trovano posto, dove non trova posto la paura, la debolezza, dove la fierezza di sè e della propria divisa sono al primo posto, prima ancora della vita. I Guerrieri sono forti, valorosi ed orgogliosi, non cedono a comportamenti che non si addicono ad un vero uomo. Ma sono anche leali e fedeli all'amicizia: non si lascia un compagno indietro, per quanto si possa rischiare. E nonostante l'aggressione di poliziotti armati di manganello, gang con tanto di mazze da baseball o armi di altro tipo, poco li fa tremare. L'unica cosa che si avvicina al fotterli è sempre una donna. E' proprio vero quel detto, tira più un.. no, non me lo ricordo.

   I personaggi sono davvero unici: folli, surreali, irrazionali, stronzi, sfacciati, irriverenti. Ognuno ha le sue piccole peculiarità che lo distinguono dagli altri: Swan è il saggio, il riflessivo, quello che, in fondo in fondo, vorrebbe fare qualcosa di più della sua vita; Rembrandt è l'artista, meno sfrontato degli altri ma molto leale; Ajax il presuntuoso che speri da subito faccia una brutta fine; Cowboy è quello col cappello da cowboy (!!) sciocco ed ottimista; e Luther, della band dei Rogues, è il folle, il mentalmente diturbato che vorresti vedere in ogni film. La scena in cui esorta i guerrieri a "giocare a fare la guerra" ha un non so che di estremamente esaltante.


 
   Non so voi, ma io ultimamente non ne vedo molti di film in grado di  far rizzare tutti i peli delle braccia e farti adorare quelle persone considerate i "rifiuti" della società. Sapete, quei film che ti coinvolgono e ti impressionano, e ti fanno pensare "ma esistono davvero cose del genere? Figo.".
   Io lo cercavo da un bel pezzo, e l'ho scovato nel '79. 


   





sabato 1 gennaio 2011

Scusate il dis-ordine.

Ed ecco quella che, grosso modo, sarebbe la mia classifica dei film usciti (in Italia) nel 2010.

1. Inception, Cristopher Nolan.
  Onestamente ho avuto ben pochi dubbi su quale sarebbe stato il film più bello del 2010 nella mia personale classifica, forse lo sapevo ancor prima di vederlo, il film in questione. 
Le aspettative erano tante, alimentate da quelle di tutta la rete, la paura che potesse non soddisfarle anche. Era difficile essere all'altezza di quanto richiesto, ma Nolan ci è riuscito alla grande. 
Perfetto sotto ogni angolazione, bello da togliere il fiato. Conciso: non si perde in spiegazioni noiose e ridondanti, non si dilunga con superflui dettagli. Ogni cosa è lì per un preciso motivo, e la cosa più bella è stata uscire dal cinema, a bocca aperta, increduli per quel dannatissimo scherzetto finale del regista, riflettendo sulla cura prestata ad ogni singola scena, ad ogni singola azione, la precisione con la quale si incastrano tutti i pezzi del puzzle. E poi vederlo di nuovo, solo per assicurarsi di avere il quadro completo e non essersi lasciati sfuggire nulla (sarebbe un peccato).
Al diavolo l'overthinking: la morale è a libera interpretazione.

2. The Social Network, David Fincher.

Mi viene da sorridere, se penso ai pregiudizi che ho letto su questo film prima che uscisse. Un film su facebook? Fincher è alla frutta.
Mi viene da sorridere perché alla fine è una delle pellicole uscite più gloriosamente da questo 2010.
Merito della regia, che in alcuni punti ha fatto rabbrividire tutti noi. Della sceneggiatura, che ci ha allietati con dialoghi finemente esilaranti e pungenti. E degli attori, giovani e bravi.
L'impresa non era certo facile: un film di 2 ore (e per me avrebbe potuto continuare ancora) sul social network che ha inebetito una generazione già non troppo sveglia (scusate, pregiudizi miei e poi, orsù, qui nessuno fa di tutta l'erba un fascio), fatto capolavoro di analisi sociologica conteporanea (anziché un film per sedicenni in piena crisi ormonale e trentenni poco calati nella realtà).
Bravo Fincher, bravo Sorkin, bravi tutti.

3. Scott Pilgrim vs the world, Edgar Wright.

Questo è il film che mi ha stregato per oltre una settimana dopo averlo visto. Questa la scena con la quale tappezzerei le pareti di casa mia.
Una delizia per la vista, l'udito e soprattutto per l'umore. 
Se manca un qualche messaggio profondo sul senso della vita, se mancano scene strappalacrime di quelle che rendono necessariamente bello un film, se manca la suspense, quello che non manca è un adorabile e spassoso umorismo demenziale capace di alleggerire lo spirito, e ditemi voi se è poco.
Una ventata d'aria fresca che in un paio d'ore ti fa dimenticare i problemi di una settimana.
Veloce, frizzante, colorato, riassume il fumetto senza perdere i passaggi essenziali e senza sovraccaricarti.
Da vedere e rivedere.
Chicken isn't vegan!?
4. La prima cosa bella, Paolo Virzì
 Quando è la tua patria (la stessa dei vari Natale in culo, poi) a dare i natali ad un capolavoro del genere è tutto più bello, tutto ha un sapore diverso. 
"La Prima Cosa Bella" è un capolavoro perché sa commuovere e sa far sorridere a livello istintivo e non cognitivo. Perché tratta argomenti che ti spezzano il cuore eppure alla fine, nonostante la morsa nel petto, non c'è spazio per l'amarezza, c'è piuttosto speranza. Speranza nel futuro, nelle persone, nei sentimenti. Nella vita.
 "La Prima Cosa Bella" è un capolavoro perché prende un argomento trito e ritrito, la malattia terminale, ed anziché trattarla nel presente e nel futuro lo fa analizzando il passato ed i suoi strascichi. E lo fa con una dolce leggerezza che non ti strazia ma ti commuove nel modo più bello immaginabile.
"La Prima Cosa Bella" è un capolavoro perché in una trama già intensa di suo riesce ad amalgamare altre questioni delicate: la dipendenza, che esprime a livello superficiale delle problematiche più intense; la felicità e l'amore, la ricerca di entrambi, la loro collisione, dover fare una scelta seppur difficile a costo di averli; ed infine il perdono, incondizionato, dettato dal cuore, dopo anni passati a colpevolizzare quella persona di tutti i propri problemi.
"La Prima Cosa Bella" è un capolavoro. Perché sì. Punto.


5. Away We Go, Sam Mendes.
Su "Away We Go" non avevo dubbi, sapevo che l'avrei adorato e sapevo che sarebbe stato un'opera romantica e leggera, ma non superficiale.
Quello che non sapevo è che mi sarei innamorata così irrazionalmente. A voler essere oggettivi non ha niente in più di molti film esclusi dalla Top, anzi, ma ehi al cuor non si comanda ed "Away We Go" ha parlato direttamente al mio cuore, l'ha colpito nei suoi punti deboli e ne ha fatto un suo succube.
Gli elementi sono pochi ma funzionano: è simpatico, la tematica è estremamente attuale, i due protagonisti sono adorabili, due "immaturi" ribelli avversi alle convenzioni sociali.
Ed un finale che lascia un velo di serenità ed un sorriso sul volto che diffilmente ti lascerà.

6. Toy Story 3, Lee Unkrich
 
Può un cartone animato per bambini essere divertente senza mai essere banale? Può essere tenero e ricordarci la nostra infanzia senza essere stucchevole e cadere nei classici cliché buonisti? Può? La Pixar sono anni che ci dimostra che sì: si può. 
Toy Story 3 non è che l'ennesima conferma, quindi non avrebbe dovuto esserci nessuna sorpresa. 
E invece no. Confesso che dopo Wall-E ed Up io continuo a sorprendermi, perché è incredibile come una pellicola possa risvegliare il bambino che c'è in noi creando una piccola perla, raccontando una favola in modo intelligente ed ironico. E questo è di estrema importanza per me, che sono una convinta sostenitrice della necessità di tenere sempre vivo il bambino che c'è in noi, provare emozioni e sorprenderci per le piccolezze per tenere lontani i nostri fantasmi. Ed i cartoni (specie della Pixar) aiutano un sacco.

7. An Education, Lone Scherfig.
 Questo è un film bello. E mai come in questo caso l'aggettivo bello assume tante sfaccettature. 
Bello non è solo un commento, è un aggettivo per descrivere ogni aspetto di questo film. E' bello da vedere, e la bellezza è l'oggetto ricercato per tutta la sua durata. Sono belli i protagonisti e la loro storia d'amore. Belle sono le loro serate ed i loro viaggi, belli i loro gusti. E l'arte, non dimentichiamoci dell'arte, che è una costante del film e che è la cosa più bella al mondo: l'arte è l'emblema della bellezza. E bella è Parigi. Quindi è un film bello, e siamo d'accordo, allora può non piacere un film bello? Io credo di no.
Ma questo è anche un film amaro, che ti dimostra con un'equazione elementare come non tutto ciò che si desidera può essere consumato, che la via più facile non sempre è percorribile (spesso non c'è una via facile). Spesso la passione ci porta a tradire chi ci ama e poi essere traditi da chi si ama, fare scelte e relative rinunce per effimere ricompense e ritrovarsi poi a mani vuote. 
Ti sbatte la verità, nuda e cruda, sotto il muso, e questo può far male.
Ma se possibile rende "An Education" ancora più bello.

8. Buried, Rodrigo Cortès
 A quanto pare quando hanno chiesto al regista come gli fosse venuta in mente lìidea di girare "Buried", lui ha risposto di aver pensato al modo per impiegare il budget più ridotto: una sola ambientazione, un solo attore. BOOM.
Ne è uscito fuori uno dei film più fighi degli ultimi anni. 
Tralasciamo la parte in cui spiego perché è incredibile come, senza l'uso di flashback, rimanga coerentemente ambientato nella bara e crei un'atmosfera claustrofobica, tesa, emozionante.
Ciò che rende "Buried" un grande film, e non solo un grande esperimento, è il suo essere politically incorrect, la sua irriverenza verso tutto e verso tutti. Verso i rapitori e verso coloro che si professano salvatori, i "buoni", e verso i datori di lavoro. E questa vena non poteva culminare in modo migliore di come immaginato da Cortès, nello sconforto più totale.


9. L'Uomo che Verrà, Giorgio Diritti.
10. The Ghost Writer, Roman Polanski
11. Porco Rosso, Hayao Miyazaki
12. A Single Man, Tom Ford
13. Fantastic Mr Fox, Wes Anderson
14. Shutter Island, Martin Scorsese
15. The Town, Ben Affleck
16. Des Hommes et des Dieux, Xavier Beauvois
17. About Elly, Asghar Farhadi
18. Avatar, James Cameron
19. Up in the Air, Jason Reitman
20. Somewhere, Sofia Coppola

Questi sono più o meno i film che sono certa rimarranno nel tempo del 2010. I primi 8 sono quelli che sento più miei, per i quali avevo più cose da dire.
Ci sono poi delle sottocategorie. Ad esempio le cocenti delusioni: 
Alice in Wonderland, Tim Burton. L'ho aspettato per anni, e quando dico anni lo dico in senso letterale, e mi ha fatto approssimativamente schifo.
Invictus, Clint Eastwood. Clint è una delle certezze, per me, nel cinema. Sapete cosa si prova nell'essere delusi da uno dei propri idoli? Io sì. E fa male.
Poi ci sono le cagate assolute: la decisione va all'unanimità a The Box, di Richard Kelly.
Per non parlare dei film dai quali mi aspettavo qualcosa, non necessariamente di sconvolgente, ma che alla fine mi hanno lasciato ben poco, molto meno di quanto mi aspettassi:
You Will Meet a Tall Dark Stranger, di Woody Allen.
Basilicata Coast to Coast, Rocco Pappaleo.
The Soloist, di Joe Wright.
Ed infine le commedie più carinose dell'anno:
Happy Family, di Gabriele Salvatores. 
Going the Distance, Nanette Burstein.

Tutto il resto è noia. O più probabilmente non l'ho (ancora) visto.


The Ghost Writer

The Ghost Writer
Roman Polanski, 2010

 Diciamo che non morivo dalla voglia di vedere The Ghost Writer, al contrario del resto del mondo. Sarà che i thriller di stampo politico non sono esattamente il mio genere preferito, ma sapete cosa? Sono contenta di averlo visto solo ora. Un po' perché ai telegiornali non si parla più dell'arresto del regista, non che mi freghi qualcosa ma almeno la mia mente è scevra  di tutti i commenti idioti che si sentivano a proposito del film a causa del fatto. Soprattutto, però, perché non credo l'avrei egualmente apprezzato, mesi fa. Non credo ne avrei colto le sfumature, la cura dei dettagli, la brillantezza dei dialoghi.
Non credo mi sarei lasciata sedurre dalla fotografia e dalle musiche con così tanto trasporto.
Non credo che al finale lo stesso brivido sarebbe sceso lungo la schiena.

Allo stesso tempo, però, non riesco ad essere completamente soddisfatta della visione. Ho trovato delle falle nella sceneggiatura: calcando delle difficoltà che si sarebbero potute superare più facilmente, cercando di confondere lo spettatore con elementi superflui (ché altrimenti il finale si capiva subito), agendo con comportamenti vistosi e scenografici anziché con la soluzione più logica e pratica, dando allo stesso tempo vita alla sequenza più bella (o quasi) del film, che ho riassunto nell'immagine qui sopra. E nell'esplicarsi dei risvolti, a volte basato troppo sulle parole, su nomi e date, rendendo il tutto più complicato di quanto sia in realtà. Si tratta, ad ogni modo, solo di un vago sentore di "imperfezione", e non una di critica vera e propria.

Dura 128 min., che non sono troppi ma neanche pochi. Procede lentamente, e l'argomento non è dei più leggeri. Ed il vero punto di forza del film sta proprio qui: nonostante questi grossi ostacoli si lascia guardare con una goduria come pochi, trovando lo spazio anche per alcune scene che possono far sorridere (ad esempio con l'allarme). Gran parte del merito va ai dialoghi che, come accennato prima, sono assolutamente geniali, capaci di esaltare l'animo tanto del romantico quanto del sarcastico e del satirico, buttando qualche frecciatina qua e la quando capita (come quando elencano, en passant, i Paesi che non riconoscono la giurisdizione della Corte internazionale dell'Aja, per dire). Ma anche alla bellezza visiva ed alla bravura degli attori, tutti bravi. Ewan McGregor mi ha definitivamente conquistata.

E se pure avessi avuto delle remore più forti  sullo scorrere del film sarebbero state tutte spazzate via dalla sequenza finale, che mi piace descrivere come sbalorditiva. Intuitiva ed amara. Chiara ed ermetica al tempo stesso. Silenziosa. Fantastica, veramente, veramente, fantastica.
Un film che è un vero peccato non godersi. Ogni classifica di fine anno sarebbe incompleta, in questo 2010.