lunedì 25 aprile 2011

Rabbit Hole

Rabbit Hole
John Cameron Mitchell, 2010
Ci sono film che cercano di essere ricordati trattando argomenti delicati ed importanti in modo pomposo, a volte troppo calcato, descrivendo eventi eccezionali ai limiti della verosimiglianza. Un esempio? Million dollar baby, dai personaggi neri, senza sfumature, caratterizzato dal susseguirsi di eventi struggente e melodrammatico. Oppure 21 grammi, incredibilmente angosciante e denso di problematiche impegnative.

Rabbit Hole no. Rabbit Hole prende una questione difficile da gestire come il lutto di una madre che ha perso il suo unico figlio di soli 4 anni a causa di un incidente molto banale, e lo analizza minuziosamente nei suoi aspetti quotidiani e ingiustamente sottovalutati.
Rabbit Hole ti parla di questa madre, non credente, che a distanza di 8 mesi dall'incidente cura il suo giardino e prepara dei dolci e va a trovare la sua famiglia, ma non vuole uscire più e non vuole più fare l'amore con suo marito. Consapevole che nulla sarà più come prima cerca disperatamente una svolta, anche un semplice appiglio, cercando di mettere a tacere il ricordo e quindi il dolore, oppure parlandoci con questo ricordo, fino a ché non diventi una sequenza senza significato di immagini e rumori.

Nel raccontare questa toccante storia se ne mettono in evidenza gli aspetti più piccoli, rendendola reale, tangibile, e forse più commovente. In particolare mi è sembrato estremamente aderente alla realtà questo dialogo tra madre e figlia:

Becca: "Does it ever go away?"
Nat: "What?"
Becca: "This feeling.."
Nat: "No. I don't think it does. Not for me it hasn't. And that's goin' on eleven years. It changes though."
Becca: "How?"
Nat: "I don't know. The weight of it, I guess. At some point it becomes bearable. It turns into something you can crawl out from under, and carry around - like a brick in your pocket. And you forget it every once in a while, but then you reach in for whatever reason and there it is: oh right.. That.. Which can be awful. But not all the time. Sometimes it's kinda... Not that you like it exactly, but it's what you have instead of your son, so you don't wanna let go of it either. So you carry it around. And it doesn't go away, which is..."
Becca: "What?"
Nat: "Fine...actually."

Purtroppo ci sono un paio di scene poco convincenti appunto perché tradiscono il punto forte del film, ovvero la sua verosimiglianza, ma basta la sequenza finale dove la bravura della bellissima Nicole Kidman si sprigiona lentamente in tutta la sua drammaticità per dimenticarsene subito.

Rassicurante ma non troppo, senza così sfociare nell'happy ending (che sarebbe stato poco credibile), il finale, se contrapposto alla scena iniziale: mostra il cambiamento dei due genitori, che in entrambi i casi fingono di essere qualcosa che non sono, ma inizialmente lo fanno per ristagnare nel loro dolore, alla fine per fare il primo passo verso un cambiamento.

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